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Immagine del redattoreGiampaolo Coriani

È il momento di parlare del 41 bis



Svelo un segreto.

Fino a pochi giorni fa, ogni volta che un avvocato parlava informalmente con un altro avvocato (o con un magistrato, ma non in aula) del 41 bis, entrambi convenivano che così com’è non sembra compatibile con la nostra Costituzione.

Ma sottovoce, come cospiratori, guardandosi le spalle, perché non si poteva dire, perché era come bestemmiare in chiesa, poi affrettandosi a rassicurarsi reciprocamente, per carità, tutto quel che serve per combattere la mafia.

Adesso il clima sembra cambiato, per quanto in modo quasi infinitesimale.

Lo si capisce dalle reazioni ad un commento sui social dell’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, o dall’intervista all’ex magistrato Livio Pepino sul Riformista.

A nessuno è mai venuto in mente, tanto meno agli avvocati penalisti, dice Caiazza, che lo Stato non abbia “…il diritto ed anzi il dovere di differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità criminale del detenuto. E’ ovvio che un soggetto qualificato come un pericoloso capomafia debba essere ristretto in condizioni tali da non poter continuare ad esercitare il proprio potere criminale. Questa finalità preventiva del regime custodiale, a garanzia della sicurezza sociale, non può sensatamente essere messa in discussione da nessuno”.


Ma la domanda che nessuno si pone, perché si ferma qui, è: il regime di 41 bis, per come è pensato ed applicato, è adeguato per lo scopo che lo Stato ha il diritto e il dovere di perseguire nell’interesse di tutti noi?

Ora, si è detto che la finalità, sacrosanta, è quella di impedire al recluso i contatti con l’esterno e quindi, nell’ambito della criminalità organizzata a stampo mafioso, che le direttive continuino a pervenire agli affiliati dai loro “superiori” carcerati.

Le condizioni del 41 bis sono così riassunte dal Presidente dell’Unione Camere Penali (come già da Zerocalcare nel suo fumetto “La voragine”).

Obbligo di rimanere in cella per 21 ore al giorno, al massimo a due ore d’aria (in cortili con alte mura) e una di “socialità”, riducibili ad una sola ora d’aria per ritenute ragioni di pericolosità.

Che significa 23 ore in cella.

Ovviamente, nell’ora di “socialità” il contatto è consentito solo con ristretti gruppi di detenuti sottoposti al medesimo regime.

Per i primi sei mesi niente telefonate.

Poi un’ora di colloquio al mese, con vetro divisorio e quindi tramite citofono, con mogli, figli e familiari.

Un’ora al mese.

Se vuoi fare una telefonata, per quel mese niente colloquio.

Assenza, nella maggioranza delle strutture, di locali adatti a visite o interventi medici (salvo che sia indispensabile un ricovero ospedaliero) effettuati sempre alla presenza di un agente, indipendentemente dal tipo di visita, per controllare la conversazione.

Vietato lo scambio di oggetti, fra detenuti, nell’ora di socialità.

Non si possono ricevere libri per studiare, non si può essere seguiti da professori o tutor.

Abbigliamento e libri di lettura contingentati.

Solo da pochi anni si può guardare la TV, ma i canali sono limitatissimi.

Non si può ascoltare musica.

Quindi, tornando alla domanda iniziale, quali fra queste prescrizioni sono dirette a conseguire lo scopo legittimamente prefissato dal legislatore (anche se poi lo dispone discrezionalmente un ministro e non un magistrato)?

E quali, invece, altro non sono che un semplice aggravamento della pena?


Credo che non sia necessario essere laureati per capirlo, perfino Donzelli potrebbe, se solo si applicasse.

Allora, se lo scopo non è più impedire le comunicazioni ma spezzare la persona per costringerla a dissociarsi dall’associazione e a collaborare con la giustizia, non si può negare che si vada in senso diametralmente opposto alla Costituzione.

E che questa modalità non sia molto diversa dai trattamenti carcerari di Paesi autoritari (Iran? Afghanistan?), e che non sia diversa neppure dalle torture ai terroristi, dal waterboarding, dalle carcerazioni senza processo a Guantanamo, che tutti deprechiamo, ugualmente giustificate dal fine superiore di evitare stragi o attentati.

Tornando a noi, una deviazione così evidente dalla strada tracciata dalla Costituzione poteva essere giustificabile quando, appunto, venivano compiute le stragi, di magistrati e civili, ma è accettabile più di trent’anni dopo come regime ordinario?

Quello che tutte e tutti dovremmo chiederci è solo questo.

Se non sia arrivato il momento di rivedere il regime di 41 bis e togliere tutto quello che non riguarda i contatti con l’esterno ma che invece si riduce ad un aggravamento sostanziale, e inumano, e quindi costituzionalmente ingiustificabile, della pena.


“Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.”

Questo passaggio del noto, ma dimenticato “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria è illuminante.

Gli interventi in aula parlamentare dell’attuale maggioranza non possono essere meglio descritti: furore e fanatismo di deboli tiranni.

Quando, invece, il fine della pena è punire proporzionalmente al reato, impedirne la reiterazione, dissuadere altri dal commetterlo, diceva Beccaria già qualche secolo fa.

E oggi, in Italia, abbiamo deciso tutti insieme che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, statuisce l’art. 27 della Costituzione.


E attenzione, non si dica che i Costituenti non potevano sapere a cosa sarebbe arrivata la mafia, perché hanno messo nero su bianco questo articolo pochi mesi dopo aver scoperto in tutto il suo orrore l’abominio più terribile di sempre, perpetrato dai nazisti con la complicità di molti nostri connazionali.

Perché il successivo requisito costituzionale della pena, cioè “tendere” alla rieducazione del reo può essere rinvenibile persino nel 41 bis, ma se questo avviene con un trattamento contrario al senso di umanità, cioè spezzando la persona, che sia anche un mostro, non dovremmo accettarlo, se davvero la nostra Costituzione è la più bella del mondo.

Quindi, anche per gli “addetti ai lavori”, dire queste cose è sempre stata un’eresia e si son sempre dette sottovoce, figuriamoci per i politici che appena ne parlano perdono consenso e voti (e infatti molte e molti tacciono, oppure giocano sull’ambiguità, ai mafiosi si, ad altri forse no, dipende, vediamo se siamo al governo o all’opposizione).

Perché sia il comune cittadino che la maggioranza (di destra ma non solo) dei politici immediatamente ti accusa, anche diffondendo rapporti riservati per attaccare in modo squadrista l’opposizione, di stare con la mafia, con chi scioglie i bambini nell’acido (Zerocalcare lo spiega benissimo, sono i “mostri”).


Oggi però il caso Cospito, che non è un mafioso, sta oggettivamente muovendo le coscienze.

Come si giustifica il togliere libri e musica a Cospito, il suo isolamento totale, quando i gruppi anarchici non solo non hanno capi ma neppure si parlano fra loro, neanche in stato di libertà?

A maggior ragione se il suo caso esplode proprio contemporaneamente alla cattura di Messina Denaro, esempio diametralmente opposto?

E quanto autolesionista, per lo Stato e per chi vuole mantenere intatto questo regime, è stata la scelta dell’ex Guardasigilli Cartabia e indirettamente di Draghi (facciamo i nomi ogni tanto), e delle procure che ne hanno fatto richiesta e che anche ora ne chiedono la conferma, di disporre il 41 bis per un anarchico, un idealista per definizione (crede che si possa convivere pacificamente senza l’infrastruttura statale), molto diverso dalla criminalità organizzata che agisce per denaro e ragioni individualistiche, mettendogli in mano l’arma più potente di lotta mai esistita, cioè il proprio corpo e la propria vita?

E, in più, relegandolo fra i mafiosi e poi stupendosi se parla con loro (e con chi altri potrebbe)?

E vogliamo ammettere che non si sta discutendo né dei reati commessi da Cospito, che infatti è stato condannato e recluso, o di quelli commessi o annunciati dagli anarchici, che vanno ugualmente contrastati, ma solo ed esclusivamente di un regime carcerario, cioè non del “se” ma del “come” vanno puniti questi reati gravissimi?

Su questo dovremmo riflettere e aprire, finalmente, una discussione, almeno fra persone civili, senza doverlo dire sottovoce.

O cambiamo la Costituzione, e decidiamo che in fondo quelli molto cattivi, i mostri, li possiamo anche torturare, oppure, al netto delle situazioni di effettiva emergenza, la applichiamo e modifichiamo, senza abrogarlo, il 41 bis.

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