Sarà per via della incredibile vicenda della carne coltivata – magistralmente raccontata da Paolo Cosseddu –, sarà per la mia passione per il ministro Lollobrigida e le sue intemerate, sarà per aver conosciuto il mondo di DOI (seguite il podcast!), però questa cosa del «parlare come mangi», anche nella versione del «fare politica come mangi», mi sta colpendo ogni giorno di più.
Siamo passati dai post mangerecci di Salvini, una sorta di campagna elettorale attovagliata, a una vera strategia politica del «mangiare».
Del resto, siamo il paese del cibo, della ristorazione, dei tavolini all’aperto, delle ricette, delle grandi abbuffate e degli stellati (che peraltro intervengono, spesso a sproposito, nel dibattito politico). È tutto un magna magna.
Il cibo non è solo metafora di ogni cosa, è diventato la chiave politica per eccellenza. L’Europa ci impone gli insetti, i poveri mangiano meglio dei ricchi, i granchi blu divorano “le nostre vongole” però sono buoni, il vino fa bene allo sport, gli allevamenti intensivi non inquinano: sono solo alcuni «estratti» delle dichiarazioni degli ultimi mesi offerteci da chi ci governa. Le associazioni di categoria vengono addirittura alle mani e gli interessi più sono dichiarati più sono accettati, al di là delle controindicazioni e delle conseguenze a cui portano.
Il paese non va benissimo e le prospettive sono a tinte fosche? I salari sono bloccati e il costo della vita è sempre più alto? Non ci sono motivi per pensare che le cose miglioreranno? Facciamoci una bella mangiata. E a chi ci chiede qualcosa, rispondiamo per le rime e in coro: «è mejo er vino de li Castelli de questa zozza società», del cambiamento climatico, della salute, della realtà stessa.
Chi la pensa diversamente è un sedizioso, un fanatico, una propalatore di ideologie globaliste, dai ragazzi di Ultima generazione ai maledetti vegani, veri nemici del popolo.
Nessuno pare voler reagire: è sempre meglio una carbonara dei moti omonimi. E se qualcuno ha qualcosa da ridire, beh, ce lo mangiamo. Vivo, possibilmente.
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