“Con il corpo di Matteotti ci faremo i salsicciotti”. È questo uno dei cori che, nei giorni successivi alla scomparsa del deputato socialista, i fascisti intoneranno tra le vie di Roma, e che Velia Titta, moglie di Giacomo, sarà costretta a subire.
È il 16 agosto 1924 quando il cadavere di Giacomo Matteotti viene ritrovato, sepolto in fretta e furia, piegato su se stesso, nella campagna laziale, a circa venti chilometri dal centro di Roma. Il ritrovamento sembra chiudere un cerchio, sancendo – nonostante le rassicurazioni di Mussolini – l’uccisione del deputato del Polesine. Non è così. Sul suo cadavere tornano a concentrarsi le attenzioni del fascismo tutto. Velia lo intuisce da subito, chiedendo che ai funerali non siano presenti camicie nere, intenzionate a un ultimo oltraggio. E così fecero, attendendo e insultando la salma, trasportata di notte verso il Polesine, alla stazione di Bologna. Nel frattempo iniziano a girare voci, poi smentite. Si dice che Matteotti sia stato evirato, ravvivando una diceria che risaliva a tre anni prima, quando Matteotti fu rapito a Castelgugliemo, secondo la quale aveva subito violenze sessuali.
È una vera e propria ossessione, quella dei fascisti per il corpo di Matteotti. “Mi hanno gettato un cadavere tra i piedi”, scrisse Mussolini il 5 settembre 1924 a D’Annunzio, come se fosse lui la vittima inconsapevole del delitto. E così verrà vietata ogni celebrazione pubblica della memoria di Matteotti, ogni ricordo presso la sua prima tomba. Esattamente: la prima tomba. Matteotti fu inizialmente ospitato in una struttura funeraria di proprietà di Giuseppe Trevisan, un amico, per poi essere spostato, nel 1928, nella tomba di famiglia. Per l’occasione, Velia chiese di poter celebrare una messa in suffragio del marito nella chiesa parrocchiale di Fratta, ricevendo un secco diniego dalle autorità fasciste. Il corpo viene quindi traslato e collocato all’interno di un sarcofago di marmo nero, donato dai lavoratori socialisti del Belgio. Un sarcofago enorme, pesante, pesantissimo. Eppure il coperchio verrà cementato, per fugare ogni possibilità di profanazione. Fino alla metà del 1944 le autorità della Repubblica Sociale continueranno la loro attenta vigilanza.
Sul luogo del ritrovamento, in campagna, fu collocata una croce e, anche lì, venivano deposti omaggio floreali. A meno di un anno dalla morte, nell’aprile del 1925, militi fascisti asportarono la croce e vandalizzarono i fiori.
La memoria di Matteotti fu una memoria complicata da maneggiare. Da un lato c’erano le divisioni tra socialisti e comunisti. Dall’altro lato, soprattutto, il fascismo non allentò mai e poi mai la presa. Ci sono tracce di santini tenuti nascosti nei portafogli – e di conseguenti arresti -, di ritratti custoditi negli armadi, nelle soffitte (lo racconta ad esempio Leonardo Sciascia), di opuscoli dedicata a Matteotti che non dovevano abbandonare i circuiti clandestini (ne parla Carla Capponi). Una memoria problematica, anche a cento anni di distanza.
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