È trascorso un anno da quel fatidico 7 ottobre che ha segnato un tragico punto di svolta, prima per gli israeliani e poi, in seguito alla sproporzionata reazione del loro Governo, nella vita del popolo palestinese, ma anche nella percezione del mondo di noi tutte e tutti, catapultandoci in una realtà dai tratti distopici dove tutte le regole che ci eravamo dati all’indomani dei due sanguinosi conflitti mondiali del secolo scorso sembrano saltate, inoculandoci uno straniante senso di sconcerto e vertigine.
Da quel giorno mi ostino a dire, e l'ho fatto anche nel mio libro, Capitalismo feroce, che adottando come chiave interpretativa il concetto di espulsione, così come teorizzato dalla sociologa Saskia Sassen, le vicende del popolo palestinese possono essere inscritte nel quadro più ampio delle recenti evoluzioni del capitalismo globale e delle sue derive. L’estromissione di popolazioni locali, come quella palestinese – vittima di una vera e propria pulizia etnica –, avviene per mano di formazioni predatorie il cui obiettivo principale, nel caso di Israele, ha travalicato oggi l’originario disegno messianico tratteggiato dal sionismo, configurandosi piuttosto come volontà di confiscare terre, risorse e capacità umane per trasferirle nei circuiti di espansione del capitale.
In questo le nefandezze compiute da Israele rispondono in tutto e per tutto alle esigenze di un Occidente che, se da un lato percepisce con chiarezza la sempre più evidente fragilità del sistema capitalistico, le sue falle e la sua intrinseca insostenibilità, dall’altro non può fare a meno di dibattersi come un animale morente, desideroso di tenere in vita un’infrastruttura socio-economica basata su oppressione e sfruttamento. Da qui la fatidica impunità di Israele e la forsennata volontà di difenderlo da parte dei ricchi paesi del Nord globale, le cui élite politiche in questo convergono trasversalmente. Come ha scritto lo scorso aprile la giornalista Naomi Klein, quello che in definitiva proteggono è un sistema di valori condiviso, ostinandosi a non riconoscere gli elementi alla base della sua crisi, vale a dire “il capitalismo, la crescita senza limiti, il militarismo, la supremazia bianca e il patriarcato”.
Un complesso che, peraltro, non resta confinato al pur feroce recinto neocoloniale e, dunque, ai paesi del Sud del mondo, ma finisce per investire anche le nostre società.
“Ogni singola lotta di liberazione ci ha insegnato che nessuno è libero se non lo siamo tutti", ha detto con convinzione Sherene Seikaly, docente di origini palestinesi, che insegna storia all'Università della California-Santa Barbara. "Dalla crisi climatica perpetua all'estinzione di piante e animali, fino alle forze della supremazia bianca, della misoginia e del fascismo globale, viviamo in un mondo di catastrofe generalizzata", ha sostenuto la studiosa durante un evento organizzato dal Massachusetts Peace Action e Historians for Peace and Democracy.
Il 7 ottobre e tutto ciò che è venuto dopo, la lunga sequela di orrori e massacri – che non ha risparmiato nemmeno Libano, Siria e Yemen – , ma anche i germi della resistenza diffusisi in tutto il mondo come avamposti di una radicalità oggi più che mai necessaria, devono indurci a contrastare lo sconquasso imminente; devono portarci a riflettere sulla brutalità di un paradigma le cui vittime non sono solo i palestinesi, ma chiunque sia in una condizione di oppressione, dalle metropoli del Nord globale agli slums del resto del mondo, fino alle terre e alle comunità violentate dalla furia estrattivista. E spingerci, infine, a sfidare l’egemonia ultracapitalista e il sistema di potere ad essa connesso che stanno mettendo in pericolo l’intero pianeta, la nostra libertà e le nostre stesse vite.
Capitalismo feroce è un libro di Marianna Lentini per People.
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