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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Coso


Riuscendo dove avevano fallito i più grandi geni dell’umanità, da Pitagora a Einstein, il nuovo governo ha infine realizzato ciò che la fisica riteneva impossibile: il moto perpetuo. Funziona così: prima si accusa la sinistra di interessarsi solo di cose futili tipo declinazioni, desinenze e generi delle parole, poi Giorgia Meloni comunica di volersi far chiamare “il” Presidente, quindi la sinistra torna a parlare di genere, poscia la destra la prende in giro, e così via all’infinito.

Purtroppo, malgrado la crisi, ancora non si è trovato il modo di convertire questo moto in energia, va completamente sprecato. Ma un domani, chissà: altro che rinnovabili.

A meno che, certo, una delle due parti non decida di dare un taglio alla faccenda, interrompendo così il circolo virtuoso, o vizioso che dir si voglia. A sorpresa, potremmo essere proprio noi a non voler passare i prossimi cinque anni a parlare di maschile e femminile nelle cariche pubbliche, ma come ovviare all’impiccio linguistico? Una modesta proposta potrebbe consistere nel decidere di chiamare Giorgia Meloni semplicemente “Coso”.

Per esempio: Coso ha incontrato i vertici delle istituzioni europee. Coso ha fatto questo, Coso ha fatto quello. Grande attesa per il discorso che Coso terrà domani al Senato. Coso ha posto la fiducia sul provvedimento che giungerà domani alle Camere. Nel suo messaggio al Presidente ucraino, Coso ha garantito il pieno sostegno dell’Italia nella guerra con la Russia. Netta presa di posizione di Coso sul prezzo del gas. E così via. Che dire, funziona.


Solo che non si può. Nel 2009, una vita fa, per dire di quanto sia nuovo il volto di Coso, pardon, di Giorgia Meloni, uscì un innocuo libretto a fumetti a lei dedicato, intitolato “La ministronza”: in quanto mini, ovvero piccola, in quanto ministra, lo era già all’epoca, per la precisione “della Gioventù”, e beh, in quanto stronza, almeno secondo l’autore e secondo un’opinione che all’epoca era piuttosto diffusa. Magari non si trattava di un capolavoro, ma era un’operetta satirica, forse un po’ feroce, che però è quel che la satira dovrebbe essere. Ecco alcune delle pacate reazioni dell’epoca da parte dell’allora maggioranza del Governo Berlusconi: “Il libello composto da vignette volgari e offensive contro il ministro qualifica chi l'ha fatto” (Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera): “Quella di Spataro non è satira, è solo spazzatura” (Maurizio Lupi, vicecapogruppo Pdl alla Camera); “Spatolaro, o qualcosa del genere, che non ho mai avuto il piacere di conoscere, dà il meglio di se, immagino, tra cacche, mosche e parolacce. Più che un fumetto mi è sembrato uno specchio” (Ignazio La Russa, ministro della Difesa); “Il nostro Paese assiste all'ennesimo imbarbarimento dello scontro, che nulla ha a che vedere con la politica, ed in mezzo ci finisce per l'ennesima volta una donna” (Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità); “L'attacco sconsiderato portato al ministro Meloni supera ampiamente i limiti della satira” (Stefania Prestigiacomo, ministra dell’Ambiente). Poteva mancare l’indignazione del Pd? Ovviamente no: “Al ministro Meloni va la mia solidarietà di donna e di vicepresidente della Camera. La satira diverte, morde e può anche far male. Ma in questo caso si tratta solo di volgare maschilismo che offende tutte le donne” (Rosy Bindi); “Pensiamo che le offese rivolte alla sua persona non siano satira, ma attacchi stupidi e volgari” (Fausto Raciti); “Il libro di fumetti sulla Meloni mi sembra un'operazione molto misogina” (Paola Concia). Non è un po’ eccessivo? A quanto pare, no.


Però allora si pone un problema. Ovvero, ma cos’è esattamente che noi pensiamo davvero, nel nostro intimo, nel profondo, di Giorgia Meloni e in generale di questa destra che ora guida il Paese? Pensiamo o no cose terribili, magari anche volgarissime, che al massimo possiamo esplicitare in qualche chat con gli amici più stretti, ma mai oseremmo dire pubblicamente, o scrivere sui social, perché noi stessi capiamo bene che non sarebbero socialmente accettabili, anzi, noi stessi non saremmo disposti a farle passare se ci trovassimo a leggerle? Non facciamo i santarellini, dai. Su questa faccenda dell’articolo “il” davanti a Presidente, poi, con tutto quel che consegue in termini di ruolo delle donne nella società, gli diremmo o no di andare a lavare le scale? Sarebbe anche un’operazione di sincerità, che male non farebbe, sarebbe tanto liberatoria, solo che poi avremmo paura di offendere chi lava le scale, onestissima categoria lavoratrice. Il che magari è un filo eccessivo, ma è anche un portato del vivere civile: perché è semplicemente un fatto di civiltà, porsi il problema di non offendere gli altri. Certo che se però si ha a che fare con interlocutori che non solo questi problemi non se li pongono, non solo fanno gli offesi quando qualcuno gli risponde, ma si sentono anche liberi di dire tutto quello che gli passa per la testa, e nel farlo rendono esplicito che stanno pure prendendo per il sedere, è come partecipare a un incontro di pugilato con le mani legate dietro la schiena. Va bene la pace, però alla lunga…





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