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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Abortire e stare benissimo


«Questi commenti potrebbero essere forti, ma è quello che sento sinceramente: non mi interessa che voi siate cristiani. Non mi interessa cosa dice la Bibbia. Mi sento come se fossi a uno spettacolo di clown, seduta qui cercando di decifrare cosa ha da dire il vostro piccolo libro mitologico su queste questioni politiche molto reali, ok? Non mi interessa se siete cristiani. Anzi, combatterò affinché abbiate la vostra libertà religiosa e pratichiate il vostro cristianesimo. È una cosa in cui credo. Ma non credo nel cristianesimo, il che significa che non potete decidere il modo in io cui vivo la mia vita in base alla vostra religione. Non mi interessa cosa dice la Bibbia. Avete tutto il diritto del mondo, tutte quelle donne che si identificano con la vostra religione hanno tutto il diritto del mondo di non abortire e di non usare sistemi per il controllo delle nascite. Ma non hanno il diritto di decidere della mia vita e di cosa io decido di fare con il mio corpo. Non mi interessa la vostra dannata religione. Sono stanca di avere conversazioni senza sosta su ciò che dice la Bibbia. Vivete pure la vostra vita nel modo in cui interpretate la Bibbia: ancora una volta, non mi interessa. Ma non potete prendere la Bibbia e dirmi: “Bene, la Bibbia dice così, questo capitolo e questo versetto dice cosà”: non mi interessa. Non ci credo e ho il diritto, in base alla nostra Costituzione, di non crederci». È ormai di circa cinque anni fa l’epica, furibonda sbroccata con cui la giornalista Ana Kasparian, conduttrice del più noto programma giornalistico americano trasmesso via Youtube, The Young Turks, riuscì a dire in solo un minuto e 18 secondi ciò che così tanti ma soprattutto tante di noi pensano da sempre. E, se non vi è mai capitato di vederlo, prendetevelo, quel minuto e poco più, è ben speso.

 

Oppure, se proprio l’inglese vi è così ostico, potete ascoltare l’intervento che ha fatto in aula, l’altro giorno, la deputata del Movimento 5 Stelle Gilda Sportiello. In cui dice, tra le altre cose, che lei stessa ha abortito, in passato. Perché? Non lo dice, e sapete perché non lo dice? Perché sono affari suoi. E di nessun altro. Finalmente, possiamo dirlo? Finalmente, per una volta, si è rotto questo muro, questo sistema omertoso per cui di aborto se ne deve sempre parlare in termini astratti, e quindi ideologici. Le donne che abortiscono, o che vorrebbero comunque poter scegliere se farlo o no, sono un fatto, non un concetto. Esistono, anche se non le vediamo mai. Fateci caso, ad esempio nella fiction, quella nostrana ma anche quella americana, puritanissima: quando una donna resta incinta di una gravidanza non desiderata affronta tutta una serie di profondi travagli ma non la si vede mai abortire, sceglie sempre di portarla a termine. E se non è un tabù questo, anzi, solo questo, visto che dalla nascita in poi quella sensibilità si riduce parecchio, specie quando si tratta di parlare di maternità e paternità, istruzione, cittadinanza, integrazione, salute, lavoro: una volta sbrigata la pratica del parto, il resto non interessa più.

 

C’è una piattaforma dal basso formidabile, qui in Italia, che si chiama “Ho abortito e sto benissimo”, ed è illuminante sin dal nome, specie per quegli uomini che sono stati abituati sin da piccoli a pensare all’aborto come a un’extrema ratio che comunque e sempre comporta un indicibile trauma, con conseguente e cattolicissimo senso di colpa. Che può essere, ma anche no, lo dicono molte donne e persone che hanno effettivamente abortito, e peraltro, di grazia, chi altro dovrebbe dirlo? Il senso di colpa è un po’ il piede nella porta che apre a ciò che poi porta a tutte le degenerazioni del caso, giù giù fino ai cimiteri dei feti, ai picchetti (e, ogni tanto, agli incendi, alle aggressioni, agli omicidi, sempre in difesa della sacralità della vita, beninteso) che assediano i consultori, e ai microfeti in plastica da mostrare alle manifestazioni per far intendere che sin dal concepimento non si sta parlando di un embrione o al limite di un ammasso di cellule, ma di bambini in miniatura già fatti e finiti, cui manca solo il codice fiscale (ma non vorremmo dare altre idee ai legislatori, ecco). Stabilito che l’aborto è un trauma, allora la donna va accompagnata nella scelta, possibilmente da associazioni antiabortiste che le facciano un agguato in ambulatorio per farle la morale e convincerla a desistere. Perché la donna mica può decidere da sola, è tutto fatto per il suo bene. L’importante è che non abbia voce in capitolo, mai. Nemmeno se si organizza una trasmissione per parlare del tema, in quel caso si mettono dietro a uno tavolo sette uomini su sette (uno dei quali Zan del Pd, tra l’altro, complimenti vivissimi), come è successo l’altra sera da Vespa, come accadeva in Bojack Horseman (ma lì era satira, mica andava presa sul serio). Perché è una questione che sta veramente a cuore a tutti, che riguarda tutti, tutti devono poter dire la loro, tutti devono poterci spiegare come la pensano, e noi dobbiamo ascoltare. E invece sapete che c’è? Non ci interessa.

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