Di astensionismo si parla per qualche ora, dopo le elezioni. Con sconcerto, da parte di tutti. Poi è il classico argomento che può tornare nel dimenticatoio per l’intera legislatura.
È compito di chi fa opposizione e in generale di chi intende fare politica indagarne le ragioni, ogni giorno. Dopo le elezioni, sia che si sia perso, sia che si sia vinto, perché se c’è una cosa che mi ha colpito nelle tornate elettorali intermedie – quelle amministrative, per capirci – è che si è festeggiata una vittoria, qualche volta un trionfo, concedendosi metafore impegnative (l’aggettivo che andava in voga solo qualche mese fa era “granitico”), senza che nessuno facesse riferimento al fatto che erano vittorie o “trionfi” a cui aveva partecipato una quota di elettorato che corrispondeva alla metà degli aventi diritto, in alcuni casi a un terzo, soprattutto nei “trionfali” ballottaggi. Nemmeno retoricamente, nella dichiarazione di vittoria, si è fatto alcun riferimento a questo dato.
Eppure le ragioni erano state indagate, con la nomina di una commissione, che ha lavorato indicando soluzioni molto precise che non sono state trasformate però in provvedimenti concreti.
Avere disallineato totalmente parole e fatti, impegni e realizzazioni, avere rovesciato le promesse ha prodotto tutto questo.
Battersi per eliminare o quantomeno ridimensionare le cause tecniche dell’astensionismo che si definisce involontario è urgente (a cominciare dall’assurda situazione dei fuorisede, quasi cinque milioni di persone, che si sarebbe dovuta risolvere da parecchie legislature a questa parte), ancora più importante comprendere le ragioni di chi da anni ormai fa parte della consistente quota del 30 per cento di astensionisti per disaffezione o scelta consapevole.
Pochi giorni dopo le elezioni, Elsa mi ha scritto:
Io ho sempre votato ma dopo 22 anni di voto mi sento profondamente presa per il c. È una vita che si parla di patrimoniale e di progressività fiscale e stiamo ancora come stiamo. Io sono incazzata per i risultati delle elezioni ma, onestamente, sono ancora più incazzata per tutti questi anni di vuoto a sinistra, perché parliamoci chiaro, la destra ha trovato una prateria. Ho fatto un mese di agosto a seguire interventi di tutti, lo scuorno (vergogna) quasi a ogni parola, ma ho provato proprio il disagio a vedere la campagna del Pd, il partito che avrebbe dovuto trainare la sinistra. Leggo che la tua campagna continuerà: mi permetto di dire a te che da questa parte c’è profonda apatia. La vedo anche nelle menti di giovani che una testa pensante ce l’hanno e alla politica non credono più e da anni non votano. E quelli sono voti che farebbero la differenza. Penso che alla sinistra non serva un restyling ma che vada rifondata.
Un altro messaggio, quello di Giacomo, ribadiva il concetto:
L’opposizione che vorrei dovrebbe essere in grado di riportare la forza degli ideali al centro della politica. Dovrebbe essere in grado di sconfiggere il populismo con l’empatia e con l’ascolto di chi è arrabbiato e di chi ripudia la politica perché a suo dire fa schifo.
Dobbiamo ricorrere a parole chiare e nitide, dimostrando alle persone che stiamo sempre dalla loro parte. Senza banalizzare il disagio, senza usare snobismo e presunzione.
Ascoltare e fare tesoro, cercare sempre – altro esercizio consigliatissimo – di rivolgerci a loro, evitare di usare parole e riferimenti che capiamo soltanto “noi”. Fare politica per loro e con loro, come Possibile sta provando a costruire la campagna per il salario minimo, per esempio. Una idea semplice, già realizzata in altri Paesi, che è diventata una proposta di legge da sottoscrivere e un battage quotidiano fatto dalle persone, che continuano a denunciare la propria situazione lavorativa non dignitosa. Ogni santo giorno.
Gli addetti ai lavori sono i lavoratori, non i commentatori.
Un ultimo consiglio per la nostra riflessione viene da Jan-Werner Müller (Che cos’è il populismo?, Milano, UBE 2017):
Parlare ai populisti non significa parlare come loro. Si possono considerare seriamente le loro rivendicazioni politiche senza prenderle alla lettera. In particolare, non si deve per forza accettare il modo in cui essi presentano alcuni problemi.
Per fare un esempio legato alla storia francese ma sicuramente aderente a ciò che viviamo ogni giorno in ogni Paese europeo, vi erano davvero milioni di disoccupati nella Francia degli anni Ottanta? Sì. Ogni singolo posto di lavoro era stato occupato da un “immigrato”, come il Front National voleva far credere all’elettorato? Certo che no.
Bisogna accettare la sfida, insomma. Con parole diverse, ma non solo a parole, ovviamente. Se ci si tiene lontani da certi argomenti, si finisce per esserne travolti.
La risposta non è certo la guerra tra poveri, in cui il povero se la prende con il poverissimo, applicando le stesse categorie che a sua volta subisce dal “meno” povero. La stessa insistenza, la stessa convinzione va destinata alla ricostruzione di quel patto sociale che sotto molti aspetti non c’è più e che da moltissimi non è più percepito.
Ancora Müller:
Un approccio che cerchi di includere chi è attualmente escluso – che talvolta alcuni
sociologi chiamano i “superflui” – impedendo al contempo ai benestanti e ai potenti di chiamarsi fuori dal sistema. Questo è semplicemente un altro modo di dire che è necessaria una qualche forma di nuovo contratto sociale.
Tutto questo è il caso di portarlo fuori dai centri delle città, nella provincia profonda. Perché il voto si divide sempre di più tra il voto di città e il voto di campagna, come in quella favola antica. Dove aumentano la solitudine e la distanza e c’è ancora più da fare.
Tratto da Opposizione - Istruzioni per l'uso, di Giuseppe Civati, disponibile qui
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