La questione israelo-palestinese è estremamente complessa. Quello che sta succedendo a Gaza da sette mesi, per nulla. Dove c'era una comunità con le sue città, case, scuole, ospedali, moschee, ora ci sono solo macerie. E sabbia, tantissima sabbia, che risucchia due milioni di persone verso un umiliante e doloroso stato di natura. Per la grande stampa è una guerra: “E ora passiamo alla guerra in Medio Oriente” sospirano i mezzibusti dei telegiornali; “La guerra Israele-Hamas” recitano le testatine della grande stampa. Una strana guerra: dopo 220 giorni di presunti scontri le vittime palestinesi sono 43mila, quelle israeliane 278 (diverse dovute a fuoco amico). All'ombra della guerra si sta liquidando un popolo. Ma a garantire quell'ombra è un sistema mediatico che si rifiuta di chiamare le cose con il loro nome: parlano di tunnel, evocano combattimenti, vaneggiano di battaglioni, ma tengono sullo sfondo lo sterminio. Per questo all'inizio dell'anno ho interrotto la mia collaborazione con il Venerdì di Repubblica: di fronte a questo immane massacro volevo essere sicuro di essere al posto giusto. O perlomeno non troppo sbagliato.
In questa guerra non si muore sul campo di battaglia ma in casa propria, a famiglie. E a liquidare mamme, papà, figli, nonni e nipoti non sono i predoni del deserto ma i soldati di un esercito regolare e alleato. È tutto molto semplice ma la nostra informazione non riesce ad assumere il punto di vista delle vittime. Racconta lo sterminio senza metterlo a fuoco. Ma è possibile astenersi al tempo dei massacri? Sono sette mesi che la grande stampa d'Occidente offre alla violenza israeliana una sponda di reticenza. Quando va bene osserva, quando va male nasconde, ma in entrambi i casi evita di prendere posizione. Da sette mesi vengono uccisi migliaia di bambini e sulla nostra stampa non si legge una parola di condanna. Non è normale, La pietà, la rabbia e l'orrore sono confinati a un eterno 7 ottobre. Quel giorno Hamas ha compiuto un'orribile e imperdonabile strage. Da allora Israele compie uno sterminio altrettanto imperdonabile. Massacro dopo massacro sale la conta dei morti, articolo dopo articolo scende l'attenzione per le vittime. Nella mia lettera di congedo l'ho chiamata scorta mediatica. La formula non ha entusiasmato i colleghi ma ha riscosso grande consenso tra il popolo della rete: siamo moltissimi a pensare che il re dell'informazione sia nudo e stia fallendo la prova del genocidio.
Da gennaio mi sono chiamato fuori. Non scrivo più per i giornali ma ho continuato a osservarli. Gaza, la scorta mediatica è il racconto succinto di come la grande stampa si sia organizzata per inquadrare la carneficina e farla sembrare un conflitto. Articoli, testate, prese di posizione di chi ci ha portato fin qui, Non è stato semplice: ci si è inventati una neolingua che divide le vittime tra chi è massacrato e chi più sobriamente muore; si sono sparpagliate le tessere dei bombardamenti per non mostrare il puzzle della distruzione; si sono prodotte sempre nuove analisi geopolitiche per offuscare la semplicità del primo piano. Così si è normalizzato, razionalizzato, neutralizzato il genocidio. Fosse stato per i nostri media si sarebbe compiuto in sordina, nell'innocenza di tutti. Ma qualcosa è andato storto: un rapper a Sanremo, l'esercito di ebrei che urla non in mio nome, gli studenti che non accettano il bagno di sangue. Di fronte all'orrore che tracima dai social, in molti hanno fatto il proprio dovere. Non la grande stampa: questo sterminio si compirà senza che i media dominanti abbiano contribuito a evitare un singolo giorno di sofferenza.
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