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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Brum brum


«Ci sono molte ragioni dietro la nostra decisione di chiudere, ma una delle principali, per me, è che semplicemente non mi interessano le auto elettriche. Le considero beni di consumo, come una lavatrice o un microonde. Non puoi davvero recensirle o apprezzarle. Non mi entusiasmano affatto, sono solo merda»: così Jeremy Clarkson nel suo saluto finale agli spettatori, in quella che sarà l’ultima puntata di The Grand Tour con i suoi compagni di sempre, Richard Hammond e James May. La trasmissione, GT per gli amici, è la continuazione di Top Gear, successo planetario targato Bbc che si era interrotto, qualche anno fa, dopo che la tivù pubblica inglese aveva cacciato Clarkson per l’ennesima zuffa: l’uomo ha notoriamente un caratterino, le cose che dice e che fa sono sempre eccessive e sono uno dei segreti del suo successo, ma a telecamere spente risultano evidentemente meno divertenti. Comunque, i suoi soci se n’erano andati con lui, trasferendosi armi e bagagli altrove.

 

Top Gear, nei suoi anni d’oro, è stato uno spasso vero, e ha cambiato il modo con cui si parla di motori in televisione. La Bbc l’ha esportato ovunque nel mondo, e vi ha investito budget da kolossal di Hollywood. Ma funzionava anche quando la trasmissione era più povera, proprio per il mix strano ma azzeccato fra i tre conduttori: il riflessivo May, l’entusiasta Hammond, e il vecchio bastardo, appunto, Clarkson. Curiosamente, era un programma che piaceva più agli spettatori comuni, persino a quelli a digiuno dell’argomento, che ai fissati delle quattro ruote. I giornalisti specializzati in automotive, forse per invidia, spesso lo detestavano. Il motivo risiede nel fatto che, se un giornalista del settore deve provare per una rivista tradizionale una nuova monovolume - in teoria l’auto più noiosa che ci sia - e raccontarla a un lettore o spettatore che magari sta proprio cercando la sua prossima vettura, gli deve dire se ha ripresa, se è comoda, se consuma poco, se è ben accessoriata, se è sicura, cose così, un po’ pedanti forse, prosaiche, ma utili. Lanciare il mezzo dalla cima di una gru per vedere se resiste bene all’impatto (indizio: no), o usarla per attraversare il deserto del Kalahari, invece, non dice molto su come si comporterà sulla A1. Però è molto, molto più divertente da guardare.

 

Di Clarkson, per tornare alle sue parole, non si può certo dire che le sue fossero esattamente recensioni, così come Avengers non è un film in costume, benché di costumi sia in effetti pieno zeppo. La sua posizione sull’auto elettrica ricorda quella che molti guidatori hanno nei confronti del cambio automatico, quando dicono che gli leva il piacere di guidare. Attraversatori del Kalahari a parte, verrebbe da chiedersi cosa ci sia di così entusiasmante, quando si avanza a passo d’uomo nel denso traffico cittadino, in coda, ripetendo cento volte ogni cento metri la sequenza frizione-prima-freno-frizione-folle: che più che guidare, al limite, è allenamento dei malleoli. Eppure, questo è il massimo di esperienza di guida media che la maggior parte delle persone automunite sperimentano ogni giorno lavorativo della loro vita, e in quelli non lavorativi di certo non gli viene voglia di rimettersi al volante. Per tacere del fatto che metà del mondo il cambio automatico lo usa da sempre, immune a questi tormenti filosofici. La diffidenza di Clarkson verso l’elettrico non è, quindi, quella di chi spesso ci spiega tutte le altre ragioni in opposizione alla sua adozione: l’adeguamento dell’infrastruttura energetica (con annessa critica alle rinnovabili, già che ci siamo), la provenienza delle materie prime critiche, la sostenibilità (perché invece, il petrolio…), i costi, la durata delle batterie e il loro smaltimento, l’adeguamento dei piani industriali, la perdita di posti di lavoro nell’automotive tradizionale e così via. No, qui siamo di fronte a un’ostilità quasi ancestrale, all’idea che l’auto a prevalenza meccanica sia bella mentre quella elettronica no, alla difesa della magia dei pistoni, degli ottani, dei centimetri cubici, dell’allineamento dei cilindri a V, e soprattutto del brum brum. Che poi, alcuni modelli elettrici lo prevedono comunque, come accessorio prettamente rumoroso. Ma non è la stessa cosa, dicono.

 

In Italia, dove tanto ormai l’industria dell’auto quasi non c’è più, e anche quella che è rimasta sembra destinata a fare una brutta fine, l’argomento scavalla a va a finire direttamente oltre, dai rigassificatori che sembravano essere indispensabili alla nostra sopravvivenza poco più di due anni fa, quando per un mese non si è parlato d’altro e poi non se ne è parlato più per niente, fino all’ennesimo, eterno ritorno del nucleare, argomento che ha molto scaldato l’assemblea di Confindustria di pochi giorni fa, presente un Governo assolutamente concorde. Gli industriali vogliono le minicentrali, e chiedono di accelerare perché già sanno che ci vorranno almeno 12 anni per averle. Come facciano a saperlo è un mistero, visto che al momento non c’è nemmeno la tecnologia, ma il messaggio è chiaro: tra i supposti esperti apertamente ostili all’elettrico, i fanatici dell’atomo alla dottor Stranamore, i governi immobili, le aziende che hanno sbagliato i piani industriali degli ultimi vent’anni e ora sono terrorizzate di esser spazzate via dai concorrenti cinesi, e i burberi nostalgici alla Clarkson che non vogliono rinunciare a quel bell’odore di nafta al mattino, si copre un’utenza abbastanza larga da mantenere un vasto consenso del pubblico al modello business as usual. Tanto, dicono, non si può avere il cento per cento di rinnovabili: che è una tesi discutibile, ma anche fosse, possiamo attrezzarci per produrne almeno il 60? Il 30? Il 20? No, eh? Intanto il tempo passa, anno dopo anno, le scadenze si pospongono, i grafici peggiorano, ma tanto si può sempre smentire la scienza e dare la colpa al Green Deal. Il pianeta va a rotoli, i ghiacciai evaporano, intere aree vivono in costante emergenza idrica, milioni di persone sono costrette a migrare da terre ormai desertificate, gli eventi metereologici estremi distruggono tutto e ci fanno spendere miliardi e miliardi ogni anno in ricostruzione, ma non importa: l’importante è continuare a non fare le rinnovabili, mai. E, soprattutto, frizione, marcia, e una bella accelerata, una sgasata alla Thelma e Louise, come sarebbe piaciuto a Jeremy Clarkson, verso l’abisso.

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