Prima di qualche anno fa ignoravo completamente quale fosse il potere pervasivo della finanza nel mondo. Nonostante una lunga storia di militanza politica, di profondo interesse per le dinamiche economiche che regolano la società e anche di curiosità verso la fatidica crisi del 2008 – il ricordo più vivido è quello dei dipendenti della banca d’affari Lehman Brothers intenti a lasciare i loro uffici con gli effetti personali caricati negli scatoloni –, non ho avuto piena consapevolezza dello strapotere di attori globali come banche, fondi di investimento e fondi pensione, fino a quando il mio lavoro non mi ha portato ad occuparmene.
È stato allora che ho iniziato a sentire l’urgenza di scriverne, di parlarne, di far conoscere a tante persone, ancora magari del tutto ignare del potere tentacolare della finanza, la spietata capacità di quest’ultima di annidarsi in tutti i gangli del sistema produttivo e anche di quello culturale, con una pervicacia tale da produrre quello che il filosofo Mark Fisher ha definito “realismo capitalista”. Un’attitudine tale da indurci a credere che non esista alternativa a tale sistema, come amava sottolineare, con il suo spietato e cinico pragmatismo, la premier britannica Margaret Thatcher, tra i maggiori responsabili della spirale neoliberista che ha messo in ginocchio, dagli anni Ottanta, la classe lavoratrice in tutto il mondo.
Capitalismo feroce nasce da questa urgenza, ma forse non avrebbe preso forma se Francesco, uno dei miei più cari amici, non mi avesse spinta a sistematizzare tutto quello che scrivevo da qualche tempo in una newsletter che curo e che si chiama “Luci nella notte”, il cui intento è analizzare le dinamiche finanziarie che, agendo a livello globale, producono effetti rovinosi sulle vite di tutte e tutti.
L’abbrivio definitivo è stato, infine, l'essere incappata nella storia di un ragazzo, o per meglio dire un uomo ormai, della mia generazione, che della ribellione di quest’ultima contro un sistema iniquo si è fatto portavoce, denunciando le storture di un paradigma che sta mettendo in ginocchio le comunità e il pianeta.
Quell’uomo è l’attivista anticapitalista catalano Enric Duran che, all’indomani della crisi del 2008, fu l’autore di una clamorosa azione ai danni delle banche spagnole: Robin Bank, come venne chiamato in quei giorni convulsi che lo videro balzare agli onori delle cronache, per tre anni chiese prestiti a diversi istituti di credito, ottenendo una cifra che si aggirava attorno ai 500mila euro. Una mole di denaro che ha poi destinato al finanziamento di iniziative solidali e culturali, senza alcuna volontà di ripagare il debito. Con un obiettivo chiaro: dimostrare che un’alternativa era possibile, dopo aver svelato le nefandezze delle banche che di lì a qualche tempo sarebbero state salvate dai governi. “Too big to fail”, vennero definite, troppo grandi per fallire, messe in salvo nonostante avessero portato alla rovina migliaia e migliaia di famiglie americane, specie quelle appartenenti alle classi più marginalizzate. Una mossa che avrebbe originato la seguente crisi del debito sovrano e che avrebbe portato a un prolungato periodo di austerità, con massicci tagli alla spesa pubblica, in tutto il momdo.
Nel mio libro ho definito Duran “una triste Cassandra contemporanea” che, con il suo gesto eclatante e la sua legittima denuncia, ha anticipato, inascoltato, questioni che sarebbero poi diventate spietatamente chiare: il deteriorarsi della salute mentale indotto, oltre che dai devastanti effetti di una globalizzazione selvaggia, anche dal feticcio del successo e da una malsana concezione di “meritocrazia”, l’aumento di disuguaglianze sempre più stridenti e di processi di espulsione massivi, l’aggravarsi della crisi climatica, la crescita delle spese militari che alimenta le tensioni geopolitiche. Tutto è riconducibile alla dinamica basata sulla liberalizzazione del capitale finanziario e sulla logica di sfrenata violenza sottesa alla più pervasiva mega-macchina sociale che, come sottolineò Luciano Gallino, sta determinando la crisi della nostra civiltà.
C’è di buono che, come nell’idea di futurabilità espressa da Franco “Bifo” Berardi, il presente non contiene necessariamente il futuro in forma di dispiegamento lineare. Sta a noi riconoscere le possibilità immanenti nel nostro tempo ed essere consapevoli che costruire una realtà alternativa, fondata su una maggiore giustizia sociale, è compito urgente di noi tutte e tutti.
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