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  • Immagine del redattoregiuseppe civati

E continuano a saperlo



Atto di accusa rivolto ai potenti, a chi guida paesi e governi, dirige giornali, a chi comanda, insomma, sulle nostre vite e a tutti noi che glielo lasciamo fare.

Cari Presidenti, italiani e europei, e per il Vostro tramite, cari potenti italiani e europei, confido nella Vostra attenzione, per accusarvi.

Mi rivolgo a voi perché ci rappresentate. Perché avete il potere, qui e ora, e troppe volte le generazioni hanno scaricato i problemi sulle successive senza intervenire e risolverli, lasciando eredità e debiti incancellabili.

Una questione politica, la questione politica che interroga e riguarda ciascuno di noi e anche chi vi scrive, ma che voi avete gli strumenti per affrontare e, se solo lo voleste, risolvere.

Perché sta cadendo nel vuoto un grido d’aiuto. Peggio, lo abbiamo messo in sordina. Ci siamo dimenticati di essere stati divisi dalla guerra e stranieri in terra d’Egitto.

“Non potevano non sapere,” diciamo ogni volta che vediamo un documentario sul nazismo, i campi di concentramento, le leggi razziali. Ci indigniamo. Troviamo ridicole le spiegazioni, le giustificazioni.

Quando guardiamo film come In My Country, quel film sull’apartheid, non possiamo che stare dalla parte di Samuel L. Jackson, inviato del Washington Post indignato, rispetto ai distinguo di Juliette Binoche, intellettuale bianca: fatichiamo a essere d’accordo con la riconciliazione ispirata all’Ubuntu (per il quale si è umani solo attraverso l’umanità degli altri) perché siamo troppo arrabbiati con i razzisti afrikaner, non possiamo accettare che non ci sia una punizione alle atrocità, l’amnistia non ci basta, troviamo ridicole le giustificazioni di chi ha goduto del sistema fingendo di non comprenderne la logica profonda.

Quando sentiamo qualche poliziotto o gerarca di questo o quel regime dire: “Mi limitavo a eseguire degli ordini”, sul nostro viso si apre una smorfia di disapprovazione e di sconcerto. La crudeltà è sempre responsabilità dell’uomo, del singolo, non ammette giustificazioni, commentiamo scandalizzati, non c’è ordine che tenga. Il nostro rifiuto è senza appello, soprattutto di fronte a uomini in divisa, che dovrebbero per primi tutelare la legge e i diritti umani, interpretare la legalità. Proviamo sincero ribrezzo per le dittature, per i regimi che negano la libertà delle persone. Per la tortura. Per la violenza verso gli inermi.

Non ammettiamo certo le improbabili giustificazioni per cui le responsabilità fossero e siano sempre di qualcun altro, fatte risalire a chissà chi e a chissà quando. Non possiamo nemmeno accettare che tutto ciò si qualifichi come mera difesa della patria, dei suoi confini, dello “spazio vitale”, perché da qualche parte sappiamo che quella era un’espressione tipica della società hitleriana.

“Sono determinati a occupare il nostro territorio, dobbiamo reagire e ribellarci. Tutti non ci stiamo, dobbiamo decidere se la nostra etnia, razza bianca, società devono continuare a esistere o essere cancellate. Se la maggioranza degli italiani dovesse decidere che dobbiamo autoeliminarci, andremo da un’altra parte.” Le parole di un politico di lungo corso e dalla fama del destrorso ma moderato hanno aperto un vasto dibattito pubblico, e giustamente, perché mettere in relazione la “razza negroide” con lo “spazio vitale” è hitlerismo, è nazismo. “Il nostro popolo deve trovare il coraggio di unire il proprio popolo e la sua forza per avanzare lungo la strada che porterà il nostro popolo dall’attuale ristretto spazio vitale verso il possesso di nuove terre e orizzonti, e così lo porterà a liberarsi dal pericolo di scomparire dal mondo o di servire gli altri come una nazione schiava,” scriveva Hitler nel Mein Kampf.

Detestiamo chi fa parte di quella “zona grigia” che non partecipava ma nemmeno contrastava simili atrocità. O la popolazione che diceva di non sapere che a pochi metri c’erano torture, violenze, campi di lavoro, camere a gas. Che non si era accorta che dalle parole, dalle etichette, dalle scritte e dai simboli si era passati alle persone.

Quando andavamo a scuola, sui nostri libri c’era scritto che è giusto ricordare perché non accada mai più. “Meditate che questo è stato,” si legge in una poesia di Primo Levi. Monito perenne a reagire prima che si può e più duramente che si può a ciò che assomiglia a quel racconto, che ne ricordi discriminazione, violenza, sopraffazione.

Bene, sappiate – anzi, lo sapete già, ed è proprio questo il punto: alcune cose che guardiamo con il distacco del tempo e il disprezzo verso il contenuto, accadono ancora. E ci riguardano. Perché non c’è più La ferrovia sotterranea, mito dell’abolizionismo americano, ai tempi dello schiavismo e prima che arrivasse Lincoln, la guerra civile, è vero, non c’è più. Non c’è più quella rete clandestina (!) di buonisti dell’epoca che miravano a salvare gli schiavi, facendoli scappare dalle piantagioni, da Sud verso Nord, e dare loro la libertà. Non c’è più quella “ferrovia”, ma ci sono altri “tunnel” da Sud verso Nord dai quali le persone vorrebbero passare e sono trattate con la stessa violenza. E ci sono ancora le squadracce che recuperano i fuggitivi, perché hanno un prezzo, perché imprigionati o fatti salpare possono far guadagnare qualcun altro. Possono essere trattenuti o venduti come schiavi, costretti ai lavori forzati per pagarsi un ulteriore tratto del viaggio, presi in ostaggio per ottenere il riscatto. La persona umana ha valore economico perché e proprio perché non ha più valore morale.

Ci siamo indignati per i privilegi di questo o quel potente, a sua insaputa, ma della violenza “saputa” poco o nulla ci interessa.

[…] Ibrahim ha venti anni, è scappato dal Mali dopo essersi rifiutato di combattere per un gruppo armato, essere stato torturato e mutilato: gli tagliano il dito di una mano. Si trova ora in un centro di accoglienza della periferia di Roma. Soffre di dolori continui e cefalee persistenti. In Libia è stato imprigionato cinque mesi senza alcun motivo. Percosso quotidianamente, violentato sessualmente, lasciato senza cibo e acqua, ha visto morire i suoi compagni di cella.

Awat è fuggito dalla dittatura eritrea. Ha pagato dei trafficanti, ha raggiunto il Sudan e a bordo di un pick-up con altri venti migranti ha tentato di attraversare il Sahara. Chi non ce l’ha fatta è stato abbandonato nel deserto. Ad Agedabia, in Libia, viene imprigionato dai miliziani: gli chiedono mille euro per essere liberato, lo picchiano, lo costringono ai lavori forzati, gli negano acqua e cibo. Per due mesi. Pagato il riscatto riesce a raggiungere Tripoli, dove viene arrestato e rinchiuso, ancora. Vogliono soldi, ancora. “Gli uomini, le donne e i bambini che sbarcano sulle coste italiane si trovano in una condizione simile a coloro che sono reduci da una guerra,” ha scritto MEDU (Medici per i diritti umani).

Viene in mente Jean Améry quando diceva che le torture e le violenze non passano e non scadono mai. Durano per sempre.

Lo ha documentato di recente anche Amnesty International: noi permettiamo che, con le nostre tasse, venga finanziata la privazione della libertà, la reclusione, la tortura, la schiavitù. Lo facciamo sulla base di accordi e violando palesemente le convenzioni internazionali, la nostra Costituzione, le minime norme di civiltà, quell’umanità che non dovrebbe nemmeno essere scritta per essere tutelata. E non vi sembrino parole forti, ma solo quello che accade. E che noi certamente non possiamo far finta di non sapere, di non vedere, non possiamo pensare che ciò accada soltanto perché qualcuno sta eseguendo gli ordini o perché così si difende lo spazio vitale.

Cosa ci sarà scritto tra quarant’anni sui sussidiari delle elementari? Come scrive Open Arms: “¿Hasta cuándo vamos a mirar hacia otro lado? ¿Cuántas muertes más tienen que haber? ¿Cuántas imágenes y testimonios más tenemos que ver para reaccionar? La historia nos juzgará a todos.” “¿Hasta cuándo?” sembra il verso di una bella e dolce canzone di una volta. E invece è la necessaria posizione di un problema enorme.

La storia ci giudicherà. E queste cose immonde non dipendono da nessun altro se non da noi stessi, dal voto che diamo, dai giornali che leggiamo e sosteniamo, dai media che finanziamo. Dall’accettare che “così va il mondo” e non si può fare altrimenti. Ed è giusto che qualcuno sia schiavo perché noi possiamo essere liberi. E ricchi. Che possiamo comprarci un maglione a pochi euro perché è confezionato all’altro capo del mondo da un bambino che non guadagna nulla. E poi magari si mette in viaggio, per vivere meglio. E noi lo troviamo inaccettabile. Che lui si muova verso di noi, non che lui sia schiavo.

[…] Ci ribelliamo di fronte alle violenze commesse in Italia e in Europa, chiediamo pene esemplari, condanniamo senza appello chi le ha commesse, chi vi ha partecipato, chi sapeva ma non ha parlato, chi le ha favorite, nell’accezione più propria del termine “favoreggiamento”. Siamo implacabili ma tolleriamo le violenze, sistematiche e redditizie, gesùsanto, redditizie, ai confini dell’Italia, che l’Italia finanzia. Lo stupro ci fa orrore, chiediamo pene durissime per chi lo commette, immaginiamo forme di difesa sempre più necessarie e urgenti per tutelarci, ma se a essere stuprate sono persone lontane, allora anche lo stupro è giustificato per fermare l’“invasione”: è un fatto secondario, un effetto collaterale. Nel campo di Bani Walid c’è una stanza delle torture. Ogni giorno Matammud Osman e i suoi uomini vi conducevano dei migranti somali. Venivano picchiati, gli si spezzava le ossa. Venivano incendiati dei sacchetti di plastica, e la plastica colava sulle loro schiene. Venivano inflitte scariche elettriche. E venivano uccisi e i loro corpi esposti. “In quarant’anni di carriera non ho mai ascoltato dei racconti così atroci,” ha dichiarato Ilda Boccasini. “L’unico paragone che mi viene da fare per questi luoghi è quello con i campi di concentramento nazista,” il pubblico ministero Marcello Tatangelo. Leggere le motivazioni della sentenza con cui veniva condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Milano non è semplice: “Picchiavano con calci e pugni, con bastoni, con spranghe di ferro […] cagionando agli stessi fratture agli arti e in alcuni casi […] anche la morte […]. Venivano torturati attraverso scariche elettriche, frustate, colpi di bastone e di spranghe di ferro, o lasciandoli per ore disidratati sotto il sole […] Con frequenza quotidiana […] le ragazze, anche di minore età, venivano sottoposte a gravissime violenze sessuali […] anche come mezzo di pressione per i familiari dei sequestrati al fine di indurli a recuperare nel più breve tempo possibile le somme di denaro pattuite per l’ingresso clandestino in Italia. XXX era stato legato senza vestiti e picchiato per quattro ore consecutive con bastoni e torturato con fili elettrici. YYY gli aveva bruciato i testicoli e la spalla con una busta di plastica sciolta.” E ancora: “ZZZ a causa dei colpi delle torture aveva vomitato sangue.” E ancora: “YYY lo aveva lasciato legato per terra anche per delle ore, posizionandolo appositamente nel punto della stanza in cui batteva sempre il sole e osservandolo mentre si disidratava e si urinava addosso.” E ancora: “YYY le aveva strappato i vestiti davanti a tutti e poi l’aveva trascinata nuda nella sua stanza, le aveva legato le mani dietro la schiena, le aveva aperto le gambe e l’aveva violentata. Essendo infibulata le aveva aperto l’infibulazione con uno strumento metallico per poterla penetrare e la ragazza per il dolore era svenuta. Quando si era risvegliata era in un lago di sangue.” E ancora: “YYY aveva riportato due ragazzi dentro l’hangar trascinandoli e dicendo rivolto a tutti gli altri: ‘Vedete queste persone che ho, come li ho uccisi, chi non manderà i soldi gli succederà questo.’ I due ragazzi, stesi a terra al centro del capannone esanimi, avevano delle corde al collo. […] Li aveva uccisi appendendoli per il collo”.

Lo stesso identico orrore, la tortura che ritorna, l’abbiamo vista in un video diffuso dal Corriere a fine gennaio 2018: persone bruciate e bastonate, costrette a terra, che urlano per il dolore.

Si legge di milizie “accreditate” presso il governo di Tripoli. Ex mafiosi, ex criminali, ex trafficanti di uomini e di merci (ex?), riconvertiti alla gestione dei migranti, “in cambio di aiuti, hangar aerei e grandi somme di denaro”. Lo ha raccontato Francesca Mannocchi, direttamente dalla Libia, dove fonti del luogo parlano apertamente di riunioni tra l’intelligence italiana e componenti della milizia Dabbashi – poi uscita sconfitta dai combattimenti, per dire della lungimiranza dell’operazione –, quella guidata da “Al Ammu”, “lo Zio” di Libia. Lo zio, un parente della nostra politica.


Si legge delle imprese degli Asma Boys, che non sono un gruppo hip hop di tendenza, ma bande armate che di professione fanno i rapitori di migranti per rivenderli.


Proprio come nel romanzo di Colson Whitehead, come negli Stati Uniti dell’Ottocento, vanno a caccia di neri, tra il Sahara e il mare, in combutta con le altre milizie.


Nella stessa dichiarazione dei nostri potenti si dice che si devono fermare i crimini contro l’umanità degli scafisti, ma se cambiano divisa, gli scafisti, li paghiamo, purché invece di trasportare le persone, le fermino, pur commettendo crimini contro l’umanità.


Ce la si prende con chi vuole salvare vite, le ONG, vero male da sconfiggere. Come scrive Erri De Luca, “se i delfini venissero in aiuto dei dispersi in mare, questi svaporati li accuserebbero di complicità con i trafficanti”. Sono organizzazioni che non possono essere buone, hanno certamente un secondo fine, dicono quasi tutti, per giustificarsi e per scaricare il barile, anzi: per scaricare il gommone. Sensi di colpa? Le colpe sono di chi li aiuta, di chi è “buonista”, solo perché sceglie di aiutare un altro essere umano. Potrebbe – dovrebbe – essere così semplice: non è “buonista”, ma è umano aiutare chi è in difficoltà, soprattutto se si è nella possibilità di farlo. Ma “non possiamo aiutare tutti” e “le risorse sono limitate”, ci spiegano. E sarà anche vero, tanto quanto è vero, però, che cinquanta milioni di euro per mandare l’esercito in Niger sono stati trovati tra il pranzo di Natale e il cenone di capodanno, mentre le risorse per la cooperazione scarseggiano sempre, e quando non scarseggiano finiscono in pessime mani. Solitamente chi fa la guerra spiega allo stesso tempo che “dobbiamo aiutarli a casa loro”, tradendo il suo pensiero con le sue stesse parole, perché non c’è nulla di male nel finanziare la cooperazione, ma c’è tutto di sbagliato nel pensare che ci sia una casa “nostra” e una casa “loro”: è questo il retaggio hitleriano più odioso e più “buonista”. Sì, buonista, non buono, perché prima che i cari potenti svuotassero di senso anche le parole, il buonismo era “l’ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari”.


[…] I cattivi non sono i cattivi, no: i cattivi sono i buoni. E se sono cattivi i buoni, i cattivi veri la fanno franca. Anzi, capita pure che li applaudano. Emarginare pacifisti e buonisti, come soggetti pericolosi, destabilizzanti, eversivi. E invece legittimare la xenofobia e legalizzare, a poco a poco, il razzismo. Si inizia con alcune eccezioni alla regola che razzisti non si dovrebbe esserlo, poi di volta in volta aumentano le concessioni. A poco a poco, per abituarsi. Tutto contribuisce a costruire una nuova narrazione, formidabile strumento politico, elettorale e di controllo dell’opinione pubblica, benché in palese violazione di norme che dovrebbero essere universalmente condivise. Come la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata il 10 dicembre 1948, coeva della nostra Costituzione. Proprio cercando il “decoro” – parola magica che consente di allontanare dalla vista la povertà – lo si è perso: nelle parole, nel modo di dare le informazioni, nella considerazione degli esseri umani. Si può gigioneggiare sulle vittime, speculare sul termine “pulizia”, evocare rastrellamenti, difendere la “razza bianca”, fare graduatorie della violenza, confondere asilo, protezione e immigrazione, senza che nessuno faccia una piega. Si può minimizzare il significato dei trattati e delle convenzioni internazionali, come se nulla fosse. Come se non esistessero. Deresponsabilizzati, e quindi irresponsabili, guardiamo da lontano i naufragi, e li derubrichiamo come se fossero fenomeni naturali, atmosferici. Vento forte, mari molto mossi, annegamenti nel Canale di Sicilia. La violenza è inenarrabile? Allora non narriamola, è più semplice.


Estratto da Voi sapete (La Nave di Teseo, 2018), da Ossigeno - N. 13, disponibile in copia singola e abbonamento annuale sullo shop di People.

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