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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Fukushima dieci anni dopo



È giunta ieri la notizia della morte di Pio D'Emilia, giornalista, saggista, documentarista, inviato di Sky (tra le altre cose) e yamatologo, forse il più grande conoscitore italiano del Giappone contemporaneo. Vogliamo ricordarlo con questa intervista che ci aveva concesso per il numero 4 di Ossigeno, uscito nel maggio 2021, in cui ci raccontava l'evoluzione del dibattito sull'energia nucleare a 10 anni dall'incidente di Fukushima, anticipando molti temi che poi sono tornati d'attualità anche nel nostro Paese.


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Pio d’Emilia, volto noto agli spettatori di Sky TG24, è un punto di riferimento italiano e internazionale per coloro che si interessano al Giappone, e infatti non a caso si definisce ed è definito sempre con la doppia qualifica di “giornalista e yamatologo” i cui racconti sono un vero e proprio cult per gli appassionati di quel Paese. Degli ultimi dieci anni, una parte importante l’ha passata documentando e investigando sull’incidente di Fukushima, di cui nel 2021 ricorre il decennale. Fu lui ad avvicinarsi più di tutti alla zona critica, ai tempi, violando il cordone dei 20 chilometri delimitato dalle autorità per raccontare, camera in spalla, cosa avveniva al suo interno. Il libro Tsunami nucleare, edito da Manifestolibri, e il documentario Fukushima: A Nuclear Story, di cui è protagonista, uscito nel 2016, sono certamente tra le testimonianze più importanti di quei fatti terribili. Lo abbiamo raggiunto in video, mentre passeggiava per una Tokyo quasi deserta per via del lockdown, e gli abbiamo chiesto a che punto è la questione nucleare in Giappone.


Ricorrono i dieci anni dall’incidente di Fukushima e, per una coincidenza direi infelice, il nuovo ministro per la Transizione ecologica ha parlato delle prospettive energetiche del Paese e ha ritirato fuori il nucleare, un argomento che carsicamente in Italia si ripropone. Ho visto che sei stato coinvolto in iniziative e dibattiti riguardanti il decennale, e volevo chiederti se hai sentito queste uscite e cosa ne pensi.


Non ho seguito quello che ha proposto Cingolani, per me il discorso italiano è fortunatamente chiuso a doppia mandata nelle urne di due referendum che sono stati fatti in epoca fortunata e sfortunata, uno dopo Chernobyl e uno dopo Fukushima. Lo dico sempre ai miei amici giapponesi: grazie a questi due incidenti gli italiani sono andati a votare e, visto che quando si va a votare vince la proposta del referendum, è stato vinto. Immagino e temo che se non ci fossero stati questi due incidenti, i due referendum non avrebbero raggiunto il quorum e il nucleare ce l’avremmo ancora. Fatta questa premessa, non penso che l’Italia possa improvvisamente cambiare direzione, anche perché la direzione è chiara, ovunque: questi giorni di intenso dibattito hanno dimostrato incontrovertibilmente che il nucleare fa parte del passato. È vero che ci sono 52 reattori in costruzione, di cui 39 in Cina; ma è anche vero che nel frattempo ne sono stati dismessi 62, quindi il saldo è sempre negativo. La stessa Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, si è rassegnata. In un suo recente studio viene elaborata una previsione per il futuro dove si vede che il ruolo del nucleare è destinato a diminuire sempre di più: ci sarà sempre meno nucleare e sempre più rinnovabile sicura. Bisogna affrontare il malinteso per cui il nucleare fa parte delle rinnovabili o che è un male necessario indispensabile per raggiungere la famosa decarbonizzazione, che è l’obiettivo appena fissato anche dal governo giapponese e dalla Cina. Su questo deve puntare il dibattito nei prossimi mesi e anni, cioè alla quadratura del cerchio. Come raggiungere la decarbonizzazione, quindi zero emissioni, senza nucleare.


Io non sono un tecnico, uno scienziato o un politico, ma mi limito a esprimere un auspicio da cittadino e da giornalista che ha visto con i suoi occhi sia Chernobyl sia Fukushima: mi chiedo se valga la pena continuare a investire e a cercare di rendere sicuro l’insicuro per definizione, anziché buttarsi subito e investire al massimo, e probabilmente con successo, in settori che non sono pericolosi. Se il mondo comincia a investire solo nelle rinnovabili, l’efficienza aumenta. Se è vero che negli ultimi dieci anni non solo la scorta di energia elettrica prodotta, ma anche l’efficienza è aumentata, capiamo che è una questione di investimenti. E quindi buttiamoci, evitiamo di perdere tempo in qualcosa che ha già ricevuto una condanna etica e anche finanziaria. Paesi molto più razionali dal punto di vista delle decisioni, come la Germania e la Svizzera, hanno annunciato l’uscita dal nucleare su basi economiche, mentre noi negli anni abbiamo preso la questione più “di pancia”. Quando c’è stato l’incidente di Fukushima, hanno fatto quattro conti: e quando tutto il mondo inserirà a bilancio i costi della gestione delle scorie e degli eventuali incidenti e catastrofi, sicuramente il costo del kWh prodotto col nucleare, al contatore, sarà molto più alto di quello che finora ci hanno rifilato.


Il nostro numero è dedicato ai temi ambientali e uno degli argomenti trattati è il negazionismo. Il nucleare sembra un esempio di come un’antropizzazione sbagliata crei degli effetti a lunghissimo termine in pochissimo tempo, e sia suscettibile a eventi incontrollabili come un terremoto, o a all’incidente umano. Leggevo dal tuo libro dei 40 anni previsti per la semplice decontaminazione delle aree più esterne al sito.


Ora dicono molto di più. 30-40 anni è un termine che si danno per decommissionare, non decontaminare, i reattori tuttora attivi di Fukushima 1. Probabilmente parliamo di 100 anni, per rendere di nuovo sostenibilmente produttiva la zona. Bisogna essere molto precisi e attenti a non esagerare. A volte entro in polemica con gli amici di Greenpeace e di altri movimenti: esagerare non porta necessariamente acqua al tuo mulino, a volte la fa perdere. Dire che la zona di Fukushima, soprattutto i 20-30 chilometri intorno alla centrale, sia radioattiva e che si muoia di cancro alla tiroide se uno si avvicina è sbagliato, è ingiusto ed è una stronzata. Non è così. Tutta la zona intorno alla centrale è diventata assolutamente sostenibile e accettabile. A un chilometro dalla centrale, dove sono arrivato io pochi giorni fa misurando con un contatore, si registra una radioattività media che è la metà di quella di Roma. Siamo a 0,01-0,02. Poi ogni tanto ci sono gli hotspot, che sono dei posti dove, per una serie di circostanze naturali o indotte che dipendono dal vento, dalla concentrazione, dalle acque piovane, eccetera, invece trovi una radioattività di 7, 8, anche 10. Tutto questo cosa comporta? Comporta una transitorietà, una provvisorietà per coloro che sono tornati a viverci seguendo le istruzioni del governo e litigando con le loro famiglie. Sono tornati molti anziani, nessun giovane, bambino, donna incinta o famiglia. Questa è una cosa che va valutata: il danno corporeo, fisico, è infinitesimamente minore rispetto al danno psicologico, spirituale. C’è gente che ha superato lo tsunami e che continua a soffrire per queste ferite ormai indelebili che non si potranno più risanare. È questo che ci deve far riflettere: l’enorme danno all’anima e non solo il rischio del cancro, che abbiamo comunque tutti ovunque siamo.


Siamo abituati, forse anche per una visione stereotipata che abbiamo del Giappone, a considerarlo un paese molto preciso, rigoroso, gerarchizzato, mentre vediamo noi stessi come faciloni, approssimativi… L’anno scorso come sai c’è stato il grande successo della serie Chernobyl che ha riportato l’attenzione sul tema.


Mi sarebbe molto piaciuto vederne una su Fukushima…


Là avevamo il disastro del controllo del regime statale sulla produzione energetica, sull’incidente e su ciò che è successo dopo. Qui invece abbiamo, sulla base della tua descrizione, il confronto tra un governo che quasi non riesce a farsi sentire rispetto alla Tepco, colosso privato dell’energia. In Italia abbiamo una situazione ancora diversa, in cui non si capisce bene dove finisce il pubblico e inizia il privato. Tutto questo mi dà l’idea che comunque, che sia il mercato, lo Stato o un mix delle due componenti, il nucleare non è una bestia che puoi controllare quando succede qualcosa.


Certo. Posto che si debba proprio avere un nucleare, sicuramente il nucleare pubblico è migliore e meno rischioso del privato. Basta fare l’esempio della Francia, che – un po’ per culo un po’ per efficienza – può dire di non aver ancora avuto incidenti, pur con costi enormi e problemi mascherati. Il Giappone questo errore l’ha fatto dando al privato un settore così delicato. Sicuramente una gestione pubblica sarebbe non dico auspicabile, per me che sono contrario al nucleare, ma migliore. L’ulteriore problema del Giappone è stato che i controllori erano parte dei controllati, tutti problemi che abbiamo riscontrato nell’incidente di Fukushima. Vale la pena ribadire che l’incidente non è stato provocato dallo tsunami, o non solo dallo tsunami. La Commissione parlamentare d’inchiesta Kurokawa ha dimostrato due cose: primo, è stato un incidente causato da errore e negligenza umana; secondo, è stato scatenato inizialmente dal terremoto. Il terremoto ha fatto cadere il famoso traliccio, che cadendo ha interrotto l’energia elettrica. L’energia elettrica era stata ripristinata dai generatori, che erano stati messi nel sottoscala invece che in alto, e quando è arrivato lo tsunami se li è “mangiati” come primo boccone.

Si dice che l’incidente è stato causato da un fenomeno che i giapponesi definiscono sotegai, ‘al di là dell’immaginazione’. Cosa che è vera per uno tsunami di 15 metri, mentre non è assolutamente imprevedibile un terremoto del 7°, 8° o 9° grado. Un terremoto è un fattore di rischio e viene da chiedersi come mai un Paese che registra il 20% dei terremoti di tutto il mondo durante l’anno e che è sistemato sulla faglia più birichina della storia, abbia avuto l’arroganza e la sfrontatezza di costruire 54 reattori. È vero che il governo Abe ha fatto ripartire alcune centrali, ma di 54 reattori che c’erano ai tempi di Fukushima, ora soltanto 9 sono stati autorizzati a ripartire, e 2 sono ripartiti. Per uno di questi, un tribunale ha appena confermato il divieto di ripartire con le operazioni perché troppo pericoloso. Quindi di fatto ce n’è solo uno davvero attivo.


C’è un passaggio che colpisce molto, quando parli dell’ultima fase del governo di Naoto Kan e racconti la fine del suo mandato, le dimissioni e la sua posizione che cambia da favorevole al nucleare a contrario. Come è possibile che in un tempo tutto sommato breve, con tutto quello che era successo, Abe abbia potuto far ripartire l’attività nucleare nel Paese senza che si sia sollevato un putiferio gigantesco?


Fra il dire e il fare, anche in Giappone, c’è di mezzo il mare. Un oceano. È importante capire i tempi. Dopo Naoto Kan non è venuto Abe. Naoto Kan si è dimesso a fine agosto 2011, ma subito dopo di lui è venuto un altro liberaldemocratico, Noda, che invece ha rimandato la decisione di Kan. Dopodiché, anche Noda è stato messo in minoranza, il Parlamento è stato sciolto, ci sono state le elezioni e ha vinto il partito liberaldemocratico. Dalle dimissioni di Kan al momento in cui è andato al governo Abe è passato un anno e mezzo o due. Quel periodo è stato molto importante. La leadership di Kan, per quanto densa di errori e ingenuità, aveva portato a decisioni molto concrete. La prima: chiudere le centrali nucleari. La seconda: condizionare le sue dimissioni all’approvazione della prima, storica legge per i sussidi nella produzione di energie alternative. Legge che è stata fondamentale per far aumentare a livello esponenziale e nel giro di pochi mesi la domanda e la produzione di energia elettrica “casalinga”. Qualcosa come due milioni di giapponesi, tra piccoli imprenditori, contadini e singoli cittadini, hanno fatto domanda per pannelli fotovoltaici. Poi cos’è successo? Due cose. Intanto la Tepco, una società che stava fallendo e che è fallita, è stata semi-nazionalizzata. Il governo è entrato, non a maggioranza ma con una bella fetta, e ha concesso alla Tepco di scaricare i suoi debiti sulla nazione in due modi. Primo, acquistando le quote; secondo, aumentando le tariffe. La Tepco è una delle cinque o sei società elettriche del Giappone, tutte con produzione diversificata, nel senso che hanno sia il nucleare che l’idroelettrico e il carbone. I cittadini giapponesi, che erano abituati a tariffe molto basse, si sono trovati in bolletta un aumento anche del quadruplo. Questo ha portato all’equazione, martellata dai media, che l’abolizione del nucleare avesse causato l’aumento dei costi. L’equivalente della “sora Cecioni” giapponese, la “sora Suzuki”, quando va a pagare la bolletta non si fa tante domande. Si è un po’ affossata l’opposizione sociopolitica al nucleare ed è aumentata la preoccupazione per la tasca. Le popolazioni a reddito fisso sono la maggioranza in Giappone e hanno un budget che può essere danneggiato seriamente, se si cambia una bolletta. Queste due cose hanno congiurato insieme a una derubricazione sociale del fenomeno nucleare. La gente si è allontanata, di Fukushima i giornali non parlano, i danni reali al corpo, tangibili, non ci sono. Abe ha detto “ripartiamo, facendo controlli sacrosanti”, e devo dire che sono stati fatti, che è anche uno dei motivi per cui le centrali non sono state riaccese. Perché sia il governo Kan che quelli di Noda e di Abe hanno ristrutturato completamente il sistema nucleare, nel senso che adesso c’è un organo di controllo indipendente, ci sono costi enormi che le società devono affrontare per aggiornare i propri sistemi di sicurezza sia esterna che interna. Il fattore politico c’è stato ma è stato abbastanza lento, non c’è stato un elemento scatenante. È proprio la situazione sociale in Giappone che si è allontanata dall’emergenza nucleare che quindi non è più considerata un problema. Dopodiché c’è il fatto che il nucleare qui non è sottoposto a referendum. Io sono convintissimo che se qui ci fosse un referendum vincerebbe il no.

Infine, e questo è l’elemento un po’ più delicato che non possiamo ignorare, una delle zone dove il referendum perderebbe, perché il ritorno al nucleare è considerato non solo accettabile ma indispensabile, è proprio quella di Fukushima, dove paradossalmente il decommissionamento sta dando lavoro a decine di migliaia di persone che altrimenti sarebbero disoccupate. Quelli che attualmente lavorano alla decontaminazione del terreno e alla messa in sicurezza sono tutti poveracci del Giappone che vengono sfruttati, scritturati da questi caporali dando vita a un fenomeno che è l’equivalente del caporalato agricolo in Italia. Il rischio che si prendono questi cosiddetti nuclear gypsies è alto. Siamo arrivati a sette livelli di subappalto: la Tepco mette a bilancio 100mila yen, 900 euro al giorno per lavoratore (e tieni conto che sono specializzati – non lo sono ma dovrebbero – e dovrebbero lavorare tre o quattro ore al massimo). Il lavoratore ne incassa 7mila, quindi 70 euro. Il tutto si perde all’interno di ben sette livelli: i primi due sono filiali ufficiali sussidiarie della Tepco, dopodiché si entra in mille società di comodo che fanno sì che ci siano decine e centinaia di persone, nel circolo della mafia locale, della yakuza, che se ne stanno dentro le osterie a incassare soldi sulla pelle di questa gente. Questo francamente grida vendetta. Anche perché parliamo di lavori altamente rischiosi.


Questo tema è presente nel dibattito pubblico? Mi riferisco anche alle difficoltà che racconti, e mi chiedo se dopo dieci anni l’accesso alle informazioni si possa dire completo o se ci sono ancora coperture, punti oscuri. Se ne sa abbastanza di quello che è successo allora e di quello che sta continuando a succedere?


Assolutamente no. Il nucleare continua a essere considerato una sorta di tabù. In Giappone il mercato della pubblicità è fortissimo ed è l’unico motivo per cui i giornali continuano ad avere tirature incredibili di milioni di copie: in questo mercato pubblicitario, il nucleare è protagonista assoluto. Ancora oggi il budget della Tepco per la pubblicità è pari a quello della Toyota. Non c’è giornale che non sia dipendente dalla pubblicità della Tōden e delle sue filiali. Siccome il Giappone non è la Cina né la Corea del Nord, non esiste la censura militare, ufficiale, formale, visibile, ma c’è quella invisibile, cioè l’autocensura. Non ci sono giornalisti che si mettono in testa di proporre al loro caporedattore delle storie investigative su quello che succede a Fukushima, perché non lo pubblicherebbero. Per un giornalista vedersi rifiutato un pezzo significa doversi dimettere, ma in Giappone un giornalista che si dimette da una grande testata non ha mercato, non esiste che tu ti dimetti dal Corriere della Sera e trovi posto dopodomani a Repubblica. Questa cosa è molto sentita e i giornalisti sono più dipendenti della loro testata, che professionisti. Sui media mainstream non c’è nulla: anche in occasione del decimo anniversario i giornali e le televisioni hanno parlato al 99 per cento dello tsunami e del terremoto, e pochissimi hanno dedicato speciali alla questione nucleare. Se l’hanno fatto, hanno proposto reportage positivi, facendo vedere che la zona non è più proibita, che è tornata abitabile. Paradossalmente, questo decimo anniversario in Giappone è stato commemorato dal punto di vista dello tsunami – e ci mancherebbe, considerando che vi furono 20mila morti –, mentre l’Occidente ha coperto molto di più l’aspetto della catastrofe nucleare. Questo è indicativo. Devo dire però che negli ultimi anni ha preso piede un movimento – forse è nato proprio in quei giorni, perché mi ricordo che anche io mi affidavo soprattutto alla rete, a Facebook, a Twitter –, insomma, sta crescendo l’informazione libera, veicolata dai nuovi media. Chi è interessato e chi vuole interessarsi trova in rete informazioni anche molto approfondite e articolate. La maggior parte della gente però non è interessata, l’unico interesse misurabile è quello dei cittadini delle zone in cui vi sono centrali da riaprire.

È un aspetto che molti ignorano: il Giappone è molto più democratico di quanto si possa immaginare. Qui l’ultima parola per questo tipo di cose – infrastrutture, aperture delle centrali, nuove strade – non ce l’ha l’imperatore, né il premier, né il Parlamento e nemmeno il governatore, ma il sindaco. Questo è un Paese dove è il sindaco ad avere davvero voce in capitolo. Siccome quella del sindaco è l’unica carica elettiva senza limiti di mandato, in passato erano i sindaci a spingere per la costruzione delle centrali nucleari. Perché il villaggio nucleare, quando arrivava, non faceva pagare l’energia elettrica per vent’anni mentre faceva costruire piscine, centri culturali, centri per gli anziani, e ovviamente ci si ritrovava con una prosperità che prima non c’era. Le zone intorno alle centrali del Giappone, che erano rurali e arretrate, sono cresciute e fiorite grazie all’indotto del nucleare. Adesso i sindaci sono i primi a opporsi per non perdere le elezioni, perché la “sora Suzuki” comincia ad avere dei dubbi dopo Fukushima. Il calcolo economico, il trend internazionale e l’opposizione locale saranno i tre elementi sui quali si poggerà l’uscita del Giappone dal nucleare. Poco prima dell’anniversario di Fukushima ho organizzato questo dibattito storico a Tokyo fra due ex primi ministri, Kan e Koizumi, che un tempo erano avversari estremi ma sul nucleare ora sono d’accordo. Hanno fatto questo appello sull’uscita dal nucleare e dopo una settimana i due ex premier sono diventati cinque: si sono aggiunti Murayama, Hatoyama e Hosokawa. Sono cinque cariatidi? Quattro sì, uno ancora no, ma in Giappone gli anziani contano, e quando cinque ex premier si presentano in pubblico e dichiarano che è ora di cambiare strada, significa che è già stato deciso di cambiarla. Solo che ci vuole un po’ di tempo. Il Giappone è un Paese dove le cose non si fanno in fretta, è un Paese vecchio di politici arroganti, cocciuti e corrotti, ma non imbecilli. Sono convinto che nel giro di qualche anno, forse di qualche mese, il Giappone annuncerà l’uscita totale dal nucleare e questa sua nuova immagine, da pericolo giallo a speranza verde.


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