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  • Immagine del redattoreFranz Foti

Il gelo dell’Iowa e l’affluenza al voto

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Con l’inizio del ciclo delle primarie repubblicane si può dire che sia realmente cominciata la campagna elettorale per le presidenziali USA, che si terranno come quasi tutti sanno a novembre di quest’anno. Non a caso, infatti, c’è stata una nuova escalation nel dibattito a distanza tra Biden e Trump - i più che probabili contendenti di questa competizione - che se le sono date di santa ragione, cosa cui siamo abituati ormai da anni e che siamo destinati a vedere in diverse repliche per tutto il resto dei prossimi dieci mesi.

E sarà forse proprio l’abitudine di cui sopra a segnare questa tornata elettorale. Se, infatti, è lecito attendersi che l’ondata di gelo che sta sferzando l’Iowa avrà ricadute pesati in termini di affluenza ai caucus repubblicani che lunedì si terranno proprio in quello stato, la sensazione è che anche l’atmosfera più generale attorno a questa seconda sfida tra Biden e Trump sia piuttosto freddina, con lo spettro del medesimo effetto sulla partecipazione al voto, con conseguenze imprevedibili.

È piuttosto evidente che questo timore è condiviso se non altro dai democratici: in che altro modo leggere la chiamata alle armi dai toni apocalittici con cui Biden ha inaugurato la stagione elettorale, se non come il tentativo di ridare ossigeno alla fiammata di indignazione popolare che lo ha fatto vincere nel 2020 con un risultato storico sia in termini di consensi che di partecipazione?

Anche gli appassionati di numeri e di cabala elettorale ci dicono che le probabilità sono a favore di una bassa affluenza. Storicamente, le “rivincite” - cioè le elezioni in cui due candidati si sono sfidati per la Casa Bianca una seconda volta - sono sempre state accolte con freddezza dall’elettorato americano: è accaduto nel 1892 tra Cleveland e Harrison, nel 1900 tra McKinley e Bryant, e nel 1956 tra Eisenhower e Stevenson. (Per la cronaca, solo a Cleveland è riuscita l’impresa di battere chi lo aveva sconfitto la prima volta).

Sempre guardando alla serie storica, negli Stati Uniti non ci sono mai state tre elezioni consecutive con alta affluenza, quindi paradossalmente i numeri alti visti negli ultimi anni fanno pensare che difficilmente saranno ripetuti anche stavolta.

La terza correlazione statistica è quella che probabilmente più toglie il sonno al povero Biden: nonostante la grande maggioranza degli esperti statunitensi ritenga che quello dell’ex vice di Obama sia stato un mandato di notevole successo sul piano dell’economia, l’effetto sulla partecipazione al voto potrebbe essere - ancora una volta - paradossalmente negativo. I periodi storici in cui l’economia americana è stata più florida, infatti, sono stati quelli che hanno visto l’affluenza più bassa, e in molti vedono proprio nella tremenda crisi economica del 2020 uno dei fattori che hanno spinto così tante persone a recarsi alle urne.

Ma non sono solo i numeri e la storia a dirci che è improbabile che queste elezioni riescano a scogliere l’apparente freddezza dell’elettorato. Non si può certo considerare un segno di salute della politica e delle istituzioni americane il fatto che nel 2024 ci trovi di nuovo da un lato con un anziano uomo d’apparato che nonostante alcune buone intuizioni e una qualche volontà di apertura non solo non può certo rappresentare la punta di diamante della sinistra mondiale, ma ha anche qualche problemino di corruzione e condotte poco commendevoli in famiglia, e in fatto di politiche climatiche e di esteri dopo un inizio promettente è ripiegato su posizioni che di progressista hanno ben poco, onestamente; dall’altro, a sfidarlo abbiamo un finto imprenditore sedicente miliardario da talent show, un losco truffatore per giunta eversivo e filo-nazista a cui però riescono benissimo i reel sui social.

Che due partiti di tradizione plurisecolare non riescano a offrire di meglio alla propria cittadinanza è come minimo avvilente, è il caso di ribadirlo.

Visto che però “questi sono” e che piaccia o meno l’esito di quelle elezioni riverbererà anche sull’Europa e sull’Italia, la vera domanda che dobbiamo porci è: una bassa affluenza chi favorirebbe, dei due? Ad oggi, è una domanda cui è difficile dare una risposta precisa.

Le vicende giudiziarie di Trump non possono che erodere ulteriormente la sua presa sull’elettorato indipendente e sui cosiddetti moderati, ma non sembrano scalfire minimamente lo zoccolo duro della sua base, che anzi sembra al momento il segmento elettorale più motivato ad andare a votare. Che lo sia perché credono di partecipare a un’epica riscossa contro una cricca di pedofili massoni che si nutrono dei loro bambini da un quartier generale nel retro di una pizzeria della east coast, poco importa, purtroppo.

In tutto questo, a costo (nella speranza?) di essere clamorosamente smentiti, le primarie che inizieranno lunedì nel gelo dell’Iowa sembrano poco più di una formalità, nessun candidato pare in grado di contendere a Trump la nomination e al di là dei loro grandi proclami, è probabile che finiscano per dargli l’endorsement una volta terminata la corsa, anche perché sono tutti su per giù diversamente trumpiani, diciamo.

È quindi Biden quello che ha più da perdere in caso di bassa affluenza? È presto per dirlo. Se da un lato la sua base elettorale è per molti motivi insoddisfatta della sua presidenza e non ha accolto con particolare entusiasmo l’annuncio della sua ricandidatura, è anche vero che rispetto ai decenni passati ci sono due mutamenti nel corpo elettorale che non possono essere trascurati: l’elettorato istruito e di reddito medio alto che vive nelle medie e grandi città, un tempo in larga parte repubblicano, ad oggi vota quasi interamente per i democratici, ed è storicamente quello che più fedelmente esercita il proprio diritto al voto. E se il vecchio Joe non ha stabilito un legame né affettivo né ideale particolarmente solido con la Generazione Z, le ragazze e i ragazzi più giovani - molti dei quali andranno al voto per la prima o seconda volta nella loro vita - mostrano in larghissima maggioranza un disprezzo verso Trump e verso l’estrema destra repubblicana persino più alto dei loro fratelli e sorelle maggiori, o dei loro genitori e nonni. E stavolta sono in 41 milioni, ad avere diritto di voto.

Il che forse ci dà un indizio sul perché i politici e i media americani siano così ossessionati dal ruolo Taylor Swift in vista delle presidenziali di quest’anno.

Sia come sia, questa campagna elettorale si apre nel segno del freddo e di una certa crisi delle istituzioni che - come avevamo ampiamente previsto - è troppo profonda perché si potesse risolvere semplicemente con la sconfitta di Trump del 2020. Soprattutto, si apre nel segno della totale incertezza. E tra guerre, emergenza climatica, ripresa di vigore dell’ur-fascismo e i dubbi e i timori sull’effetto che le nuove tecnologie di intelligenza artificiale avranno su tutto questo, ci lascia presagire che sarà un altro anno in cui ci sarà molto da raccontare. Anche se un po’ infreddoliti e un po’ preoccupati, noi di Ossigeno ci saremo.

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