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  • Immagine del redattoregiuseppe civati

Il governo Meloni, una retrospettiva



Un anno fa di questi tempi cadde fragorosamente il governo Draghi, si squagliò la grande coalizione che raccoglieva tutti tranne Meloni, l’uomo-agenda dovette lasciare il passo al ritorno della politica dei partiti e delle coalizioni.


Dai primi scricchiolii – Di Maio vs. Conte, Conte vs. Draghi, Letta nel mezzo di entrambi i conflitti – nel breve volgere di qualche giorno si arrivò alla caduta, perché il “responsabile” Silvio Berlusconi decise di sostenere l’iniziativa di Salvini, il primo a smarcarsi, e di portare per la prima volta l’Italia al voto in estate, con grande gioia per chi era già all’opposizione, com’era e com’era stata Giorgia Meloni. Dopo poche settimane quest’ultima sarebbe arrivata prima nella corsa elettorale e il 25 settembre sarebbe iniziata la stagione dell’estrema destra al governo del Paese. Il centrosinistra decise di smobilitare, senza organizzare una coalizione che potesse competere con la destra nei collegi uninominali.


Ho provato a radunare alcune idee in proposito in un piccolo pamphlet, Opposizione. Istruzioni per l’uso, perché mi pareva rilevante il fatto che all’opposizione ci andassero quelli che nell’ultima generazione politica erano stati praticamente sempre al governo. Era, la mia, una preoccupazione che purtroppo si è rivelata fondata.


La prospettiva della destra si è subito basata sulla difensiva: più che una prospettiva è, dunque, una retrospettiva.


Ci vuole riportare a un tempo che risale a qualche decennio fa, all’insegna della “tradizione” come unica chiave di lettura d’ogni cosa. L’insicurezza del resto dilaga ed è semplice per gli ultraconservatori proporre un impossibile e però a prima vista convincente e consolatorio ritorno al passato.


E così, come ha documentato il numero 12 di Ossigeno, la battaglia è contro ogni cosa nuova. Mentre scrivo si segnala, ad esempio, la crociata contro la carne sintetica (ovvero, come sarebbe giusto definirla, coltivata) che si è intestato uno dei più attivi nel riportare indietro le lancette dell’orologio di un secolo, il ministro Francesco Lollobrigida.


Un tempo, quello della destra al governo, che non arriva mai a raggiungere il futuro, al massimo si ferma al presente - all’insegna dell’eterno presentismo della politica italiana. Chiaro, ad esempio, l’indecoroso messaggio sul pizzo di Stato di Giorgia Meloni (espressione che Meloni ha usato a Catania, dove non poteva essere equivocata) e l’intemerata di Salvini sulle cartelle esattoriali, che si possono anche non pagare più. Non importa che le imposte servano a tenere in piedi il nostro welfare e non solo. L’importante è ammiccare in ogni modo al nero, quello diffuso, quello parallelo all’economia trasparente. Del resto sul movimento No-Tax la destra italiana, grazie a Berlusconi e alla Lega di Bossi, ha costruito i suoi maggiori successi. Del doman non v’è certezza: meglio tenersi quello che si ha o quello che si è preso, anche indebitamente.


Non è un caso che il governo soffra sul PNRR, per incapacità, per inconsistenza ma soprattutto per mancanza di progettualità e di visione. Progettare stanca.


Il punto mi pare che se la destra punta alla conservazione attraverso la rassicurazione, la sinistra – o quantomeno chi di destra non è – dovrebbe puntare su un messaggio positivo a favore dell’innovazione. A cominciare dal clima: la rassicurazione della destra è falsa, perché se andiamo avanti così ci facciamo male.


Sono loro i catastrofisti, perché negando la realtà alla catastrofe ci conducono. La sinistra deve cogliere quello spazio non per imporre ai cittadini soluzioni “loro malgrado” ma per fare in modo che ci si guadagni dagli investimenti per l’innovazione e che sia fonte di benessere per il maggior numero di lavoratrici e lavoratori. Questo insegnano le comunità energetiche, gli investimenti su efficienza energetica e sulle rinnovabili, un’idea diversa di mobilità e mille altre cose che si potrebbero fare subito.


Lo stesso vale per la ricerca e per ciò in cui l’Italia continua a non credere, perché perdiamo posizioni e non intendiamo recuperarle, rispetto ai nostri partner e competitori a livello internazionale. Noi pensiamo al presente, ancora una volta, la ricerca è sinonimo di futuro e noi continuiamo a trascurarla. Non ci interessa se gli altri Paesi vanno in tutt’altra direzione. Noi siamo gli autarchici. Cosa può andare storto?


Ciò vale anche per il dato economico e sociale. Questa è una destra classista, dal punto di vista economico. Ha eliminato il cosiddetto reddito di cittadinanza, sui salari difende le posizioni più retrive (ora vediamo cosa succederà sul salario minimo…), si atteggia a populista ma non intende cambiare i rapporti di forza all’interno della società. Chi ha, se lo tiene. Chi ha una posizione, la mantiene. Briatore, con le sue intemerate a difesa dei ricchi (“non ho mai visto un povero creare lavoro”, una delle sue uscite preferite), qualifica perfettamente questo modo di pensare, è l’intellettuale di riferimento di questa classe dirigente.


La sinistra – accusata di essere elitaria – dovrebbe puntare decisamente alla redistribuzione, al contrasto delle concentrazioni che ingessano il mercato e il paese e della rendita che non fa altro che consolidare lo status quo. Se non lo fa, sembra solo una destra più timida, com’è parsa a molti in tutti questi anni. E il voto popolare si è allontanato decisamente dalle posizioni espresse dalla sinistra di governo.


Se la destra conserva, insomma, gli altri devono fare qualcosa di totalmente diverso. Altrimenti, quell’atteggiamento fascistoide e però doroteo di Meloni e soci diventerà sempre più abituale, più di quanto già non sia. E gli italiani tenderanno a conversare i conservatori.


A lunga conservazione, appunto.

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