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  • Immagine del redattoreDaniele Soffiati

Il mito dell’identità culinaria nazionale



Alla fine dello scorso marzo un mare di polemiche ha travolto Alberto Grandi, professore di storia dell’alimentazione, di storia economica e presidente del corso di laurea in Economia e management all’università di Parma. Mantovano, classe 1967, Grandi ha rilasciato una lunga intervista al Financial Times riflettendo criticamente sul mito della cucina italiana. Apriti cielo: gli attacchi di larga parte dei media, del ministro Salvini e di Coldiretti sono stati immediati. Attenzione però, Grandi non mette in discussione la qualità dei prodotti italiani, da lui stesso ritenuti eccellenti, bensì spiega come la storia centenaria dei nostri presunti piatti tipici sia in larga parte una bugia. Un’“invenzione della tradizione”, per dirla col titolo di un’importante libro di inizio anni ‘80 curato, assieme ad altri autori, dal grande storico inglese Eric Hobsbawm. Non a caso, Denominazione di origine inventata si intitola il saggio di Grandi uscito nel 2018 per Mondadori, più volte ristampato. Titolo replicato, con l’aggiunta dell’acronimo DOI, per il podcast (da oltre un anno nella classifica di Spotify) realizzato dal docente con chi scrive. Questa intervista nasce quindi, su richiesta di Ossigeno, in modo non dissimile a una puntata del nostro podcast, e ne è uscita una lunga chiacchierata che, tra Parmigiano, spaghetti e caffè, tocca in realtà un tema molto politico: l’identità degli italiani.


Alberto, prima di ogni altra cosa partiamo dalla tesi di fondo dei tuoi studi, che non da ieri – ma da una quindicina d’anni - tu argomenti in saggi, conferenze e nelle aule universitarie, prima ancora che nei libri e nel nostro podcast.

La tesi di fondo è la seguente: i prodotti tipici italiani, quasi sempre descritti come frutto di una tradizione antica o antichissima, sedimentata nei secoli e profondamente radicata nella storia, nella cultura e nelle tradizioni locali, hanno in realtà in larga parte una storia molto più recente. Il mito della cucina italiana è nato sostanzialmente a partire dagli anni Settanta. Quando la straordinaria crescita determinata dal boom economico ha cominciato a segnare il passo, l’Italia ha imboccato una strada del tutto originale nel contesto dei paesi industrializzati. Il percorso scelto dal nostro Paese è stato quello di caratterizzarsi, in sostanza, sulla valorizzazione delle piccole imprese, dei distretti industriali, del made in Italy, e quindi anche delle sedicenti eccellenze enogastronomiche, come principali fattori di sviluppo, mentre si rinunciava a una politica di rilancio dell’industria basata sulla ricerca, sugli investimenti, sull’innovazione di processo, sulle nuove fonti di energia…


Il problema è che la cucina italiana ha finito per assumere una dimensione identitaria che va al di là di ogni ragionevolezza.

Lo dimostra la polemica nazionalistica innescata dalla mia intervista al Financial Times. C’è addirittura chi è arrivato a immaginare un complotto anti-italiano nel momento in cui il governo Meloni ha presentato la candidatura della nostra cucina a patrimonio immateriale dell’Unesco. Ormai basta fare accenno alle origini americane di molte nostre ricette, o azzardarsi a introdurre qualche elemento creativo in preparazioni che si vorrebbero scolpite nel marmo (ma che molto spesso hanno una storia recente e per nulla lineare), per far scattare quelle che io definisco “reazioni pavloviane” prive di senso.


Hai richiamato le origini americane di molte nostre ricette. Questo è un tema fondamentale, strettamente legato alle nostre radici, in cui rientra anche il “nume tutelare” della cucina italiana, Pellegrino Artusi, da molti citato a sproposito.

Partiamo da una constatazione assodata per chi, come me, si occupa di storia della cucina: è stato il libro dell’Artusi a fine Ottocento a diventare di fatto il primo e più importante manuale della cucina italiana. Il problema storiografico è che La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, prima di avere successo all'interno dei confini nazionali, divenne un testo fondante di una cucina identitaria tra le comunità italiane di emigrati, in particolare quelle nel Nord America. I veri protagonisti della rinascita gastronomica italiana sono stati proprio gli italiani d’America, che hanno imparato a maneggiare nuovi ingredienti, che hanno fatto della salsa di pomodoro il perno della nostra cucina e che hanno trasformato un prodotto come la pasta, consumato solo in alcune aree del sud Italia, nel piatto nazionale per eccellenza. Negare questo, e continuare a raccontarci la favola degli italiani che hanno insegnato la cucina al resto del mondo, non è solo sbagliato dal punto di vista storico, ma è davvero offensivo nei confronti dei milioni di italiani che sono stati costretti a lasciare la loro terra per colpa della fame. In realtà gli italiani che sono emigrati non avevano nulla da insegnare in cucina e molto probabilmente hanno imparato a far da mangiare andando in giro per il mondo. Soprattutto sul loro sacrificio, l’Italia ha costruito il boom economico, che ha definitivamente spezzato i vincoli della scarsità e della denutrizione che avevano caratterizzato le nostre classi popolari fino a quel momento.


Alla fine arriviamo sempre lì, al boom economico.

Sì, perché il conquistato benessere permise agli italiani d’Italia di creare una cucina domestica nuova, frutto degli incroci e delle contaminazioni che arrivavano da coloro che erano emigrati e allo stesso tempo dai nuovi modelli di consumo veicolati dalla televisione e da Carosello. Queste sono le radici nella nostra cucina, che non possono essere confuse con l’identità e la reputazione che il cibo e i prodotti italiani hanno oggi nel mondo.


Eccola, la nostra identità in cucina...

Ma l’identità in cucina, e non solo, cambia continuamente. Noi italiani oggi siamo i primi consumatori di sushi in Europa, i terzi per quanto riguarda il kebab e le nostre città sono letteralmente invase da poke e bubble tea, per non parlare di fast food e ristoranti etnici. Se davvero il gusto italiano facesse parte del nostro dna, come vorremmo far credere prima di tutto a noi stessi, non saremmo così disposti a cedere alle mode del momento. Continuare a raccontarci favolette edificanti sul ruolo di Isabella d’Este o di Pico della Mirandola nella storia dei tortelli di zucca e dello zampone di Modena, o di come Maria de’ Medici abbia insegnato a fare la besciamella ai francesi, serve solo a spargere un’aura di leggenda su una cosa così terribilmente concreta come il cibo.


Viene da pensare che questo attaccamento alla nostra cucina rappresenti l’estremo, maldestro e disperato tentativo di tenere in piedi un’identità nazionale che non sa più dove appoggiarsi...

Sì, è così. Ed è evidente che il tentativo di cristallizzare la nostra cucina e con essa la nostra identità rischia di uccidere entrambe. La nostra identità di oggi, ragionevolmente, sarà un pezzo delle nostre radici di domani. Di questa dimensione dinamica dobbiamo essere consapevoli: l’identità non è una cosa che rimane fissa nel tempo. Purtroppo, mi sembra che la goffa iniziativa del governo italiano di candidare la cucina italiana come patrimonio immateriale dell’umanità vada esattamente nella direzione di costruire un’identità immobile e soprattutto escludente, questo sì davvero in contraddizione con le nostre radici.


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