103 a 86. È questo il risultato finale della sfida cestistica tra le nazionali degli Stati Uniti e del Sud Sudan, andata in scena ieri sera. Da una parte il dream team USA, dall’altra una nazionale debuttante ai giochi, legata a una federazione nata solo tredici anni fa, con la sanguinosa indipendenza del Sud Sudan. Un risultato scontato? Forse sì, dato l’enorme divario tra le forze in campo. Eppure, una decina di giorni fa nulla sembrava scontato, quando le stesse squadre, impegnate in un’amichevole, terminarono l’incontro col punteggio di 101 a 100, scatenando i commentatori americani, in particolare Paul Pierce e Gilbert Arenas, ex stelle NBA. Il primo, vincitore dell’anello nel 2008 con i Celtics dei “big three” – e sì, uno dei big era lui -, ha dichiarato che “Stavamo per perdere contro degli africani: non hanno neanche le scarpe, gliele dobbiamo mandare noi”. Il secondo gli ha fatto eco, “Sud Sudan? Probabilmente non hanno nessuno alto più di 190 centimetri. Hanno squadre o campi da basket?”. Per la cronaca, sia Pierce che Arenas sono neri.
Non si è fatta attendere la risposta di Luol Deng, che ha calcato gli stessi campi dei primi due, vestendo, tra le altre, le maglie dei Chicago Bulls e dei Lakers. “Normalmente non presto attenzione a questo tipo di commenti, ma come africano, leader nella mia comunità e presidente della Federazione di basket del Sud Sudan, sento che è importante rispondere" ha scritto Deng su Instagram. "I commenti fatti da Paul Pierce hanno mostrato disinformazione e mancanza di ricerche. Tuttavia, l'ha usato come momento per imparare e ha espresso positività una volta che si è informato. Grazie a Paul Pierce per essersi scusato, quello posso rispettarlo. Per quanto riguarda i commenti di Gilbert, erano certamente più irrispettosi e crudeli. Personalmente, non mi interessa molto. Non scambierei mai il mio posto con nessuno; essere africani è speciale. Tuttavia, per i giovani bambini africani e afroamericani che ammirano e ascoltano Gilbert, questi commenti possono farti pensare che vali meno degli altri e far pensare al resto del mondo che gli africani valgono di meno. […] Non c'è nulla nella nostra storia da cui dovremmo distanziarci. In realtà voglio ringraziare entrambi per averci dato questa piattaforma per rispondere e informare gli altri. Abbiamo lavorato molto duramente negli ultimi quattro anni per essere qui, e non possiamo permettere a pochi secondi di toglierci quello che abbiamo raggiunto. Invece, apprezziamo il momento e usiamo questi commenti come un'opportunità per educare”.
Luol Deng non è stato solo un grande giocatore di basket, ma è stato anche un rifugiato. Proprio a causa della guerra civile, infatti, la sua famiglia ha abbandonato il Paese quando lui aveva tre anni, stabilendosi in Egitto. Ed è qui che Deng ha incontrato un’altra stella del basket: Manute Bol (sudanese di etnia dinka, il più alto giocatore della storia della NBA – ditelo ad Arenas). “Manute rappresentava le cose giuste. Era famoso, giocava a basket, tutti parlavano della sua altezza, ma Manute tornava sempre nella sua casa e restituiva qualcosa. Ecco chi era, e il basket non lo ha cambiato”, ha dichiarato Deng in occasione delle scorse olimpiadi. “Mi sono appassionato al basket perché Manute si è preso una vacanza per aiutare la comunità sud sudanese del posto. Quindi, se non fosse stato per qualcuno che cercava di aiutare gli altri, non avrei mai avuto l’opportunità che ho avuto”.
Oggi Luol Deng si è incamminato sulle orme lasciate da Manute Bol: senza il suo supporto la federazione cestistica sud sudanese non sarebbe mai arrivata dove è arrivata. “Luol finanzia questo progetto di tasca sua da 4 anni” ha dichiarato Royal Ivey, coach della nazionale. “Palestre, hotel, biglietti aerei: paga tutto. Non saremmo stati capaci di mettere assieme tutto questo senza di lui”.
Un investimento che riguarda il basket, ma che riguarda un intero Paese e la sua storia: "Da quando sono nato, non ho conosciuto altro che conversazioni sulla guerra. Ogni volta che andavo a scuola, anche quando ero nella NBA, si parlava sempre di 'rifugiati partiti a causa della guerra' e 'paese devastato dalla guerra'”, mentre "Ora stiamo trovando una nuova storia”. Le olimpiadi non possono che rappresentare uno snodo fondamentale, in tutto ciò: "Sapete quanto è orgoglioso ogni sud sudanese quando si parla di basket? Anche se non giocano a basket, non vedono l'ora di raccontarvelo. È un sollievo. Finalmente abbiamo qualcosa di positivo da dire”.
La storia di Luol Deng è raccontata in La mia casa è la bocca di uno squalo, un libro illustrato che raccoglie storie di rifugiate e rifugiati che hanno fatto tanto per l’umanità:
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