C’era una volta un libro e un post su Facebook. Non è una favola ma è una bella storia, che va raccontata. In occasione della Giornata della Memoria, abbiamo pubblicato sui nostri canali social questo estratto di La guerra dei Bepi, il libro in cui Andrea Pennacchi - tra le altre cose - racconta di suo padre, rinchiuso nel campo di concentramento di Ebensee. Un estratto molto bello, molto personale, che parla del padre e della sua difficoltà di raccontare quanto aveva vissuto. “È per questo che è difficile raccontare tuo padre. Soprattutto le cose che lui non voleva raccontare: la guerra, la prigionia. È per questo forse che noi, oggi, abbiamo problemi con la storia recente: coi fassisti e i partigiani, i cauboi e gli indiani, gli Achei e i Troiani. Forse ha parlato troppo chi non doveva parlare, o non aveva tanti titoli per parlare. E chi invece avrebbe potuto (avrebbe dovuto) non se l’è sentita, è stato zitto. Forse."
Lo avevamo pubblicato perché era giusto e doveroso, e perché sappiamo che sono tante le persone - compreso chi scrive - ad avere una storia simile. Tanti hanno apprezzato, qualcuno ha criticato, qualcuno ha ignorato. Cose normali, sui social.
Poi, però, dopo qualche ora, è successo qualcosa. È successo che un lettore si è rivisto nell'estratto del libro, e in un commento ha raccontato di suo padre, rinchiuso in un lager, uscito, morto a 59 anni di silicosi dopo aver lavorato in fabbrica "senza nemmeno darmi il tempo di fargli domande".
E, da quel momento, senza che noi facessimo nulla, è successo molto altro: è successo che migliaia di persone hanno letto questo commento e, riconoscendosi a loro volta, hanno deciso di raccontare.
E così, nel giro di qualche ora, milioni di visualizzazioni, migliaia di condivisioni, La guerra dei Bepi che deve essere mandato in ristampa perché è improvvisamente entrato tra i 50 più libri più acquistati in tutta Italia. E, soprattutto, i nostri occhi che si trovano davanti a migliaia di racconti. Tutti simili, tutti diversi tra di loro e meritevoli del giusto rispetto e della giusta attenzione.
Le trovate qui, ma ne riportiamo alcune: Mio padre fu schiavo di guerra. Alle nostre insistenze sul farci raccontare la sua terribile esperienza, una sola volta ci rispose: "siamo sopravvissuti mangiando le bucce delle patate. Vi dico solo questo non fatemi ricordare altro." Ma poi fu con l'esempio della sua vita che ce la raccontò.
Mio padre non ha mai raccontato nulla forse perché noi figli persi nelle nostre rivendicazioni e considerandoci culturalmente superiori non avevamo voglia di ascoltare.
Oggi capisco i suoi silenzi e vorrei potermi sedere si suoi piedi e chiedergli di raccontare,stupida ragazzina non avevo capito ciò che aveva subito povero papà Anche mio papà, Calogero, era stato preso prigioniero a Valona in Albania.
Quando ricordava, a volte sollecitato da noi figli, iniziava ....ma era così tanto il dolore e la rabbia che si emozionava e non riusciva ad andare avanti. Noi abbiamo smesso di chiedere.
Mi sento in colpa per non essere riuscita a liberarlo dai brutti ricordi. Ciao papà.
Mia madre era tedesca, una di quelle tedesche che perse mamma e sorelle nei campi di sterminio. Ricordava poco e niente, e quello che so me lo ha raccontato la seconda moglie di mio nonno. Si salvò perché il suo papà conobbe una segretaria che lavorava per gli Americani e fu l'unica che riuscì a portare a casa. Mia mamma era tedesca e non parlò mai di quello che aveva passato ma ricordo ancora le sue ninne nanne e il suo "buona notte, tesoro" in una lingua che mi è sembrata sempre la più dolce del mondo. Era una persona dolce e timida ma testarda e perseverante. Molto riservata e vissuta con la paura di essere tedesca.
Mi ha ricordato mio nonno paterno. Il nonno che purtroppo non ho mai conosciuto. Lui fu prigioniero dei tedeschi. Lui non parlava mai di quel periodo. Al suo rientro poi non voleva più vedere le patate. Per mesi le bucce di patate furono l'unica cosa che gli fecero mangiare. Quando mio padre a 21 anni partì per lavorare in Germania, nonno lo implorava di non andare perché erano "bestie". Ma non ha mai parlato.
Anche mio padre ha fatto la guerra, imprigionato come detenuto politico, partigiano, picchiato dai tedeschi, non ha mai raccontato le persecuzioni subite, anzi, a guerra finita ci raccontava storie edulcorate della sua "avventura" per non spaventarci perché già traumatizzate dalla maledetta guerra.
Siamo in molti e vedo che il numero aumenta, nel sapere che i nostri padri non hanno avuto voglia di raccontare ciò che è successo, quando si trovavano prigionieri a 18 anni in una terra e lingua a loro sconosciuta e per noi figli è difficile chiudere questo "tassello" di dolore.”
Mio padre è stato prigioniero in Germania dopo il 43. Non ha mai voluto parlarne, tranne quando non sopportava i capricci a tavola. Io, mangiavo le bucce di patate, se le trovavo.... Ecco è vero, chi doveva parlare non ha parlato. Il pudore del dolore. E la fatica di sentirsi vittima.
Un libro, un post su facebook. Non è una favola, ma è la storia bellissima del potere che hanno i libri quando ci danno un’occasione per riflettere e raccontare. Una storia di silenzio e di memoria, di condivisione e di discussione. Una storia che dà orgoglio e un po’ di speranza.
E, soprattutto in un periodo in cui di libri si parla poco e male, e quando se ne parla spesso vengono messi in contrapposizione ai social in nome dei bei tempi andati, in un periodo in cui fanno notizia solo le polarizzazioni, le divisioni, i litigi spesso sul nulla, è una storia che va raccontata. E sarebbe bello se di questa storia, della comunità che si è raccolta intorno a un libro facendolo diventare uno strumento di memoria collettiva, parlassero anche altri.
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