«The UN's Verdict on Climate Progress Over the Past Year: There Was None.» Così il New York Times, ieri.
E mentre la politica italiana si spinge fino alle posizioni vannacciane del «non dobbiamo rinunciare a nulla», alla passione per lo scappamento e per l’inquinamento stesso più volte ribadita dalla maggioranza di governo, al contrasto di qualsivoglia innovazione (la carne coltivata su tutte), alla ciclicità dei ghiacciai che prima o poi tornano, alle continue difficoltà messe di fronte alle fonti rinnovabili da parte di tutti gli schieramenti, il mondo punta dritto verso l’iceberg.
Non se ne riesce a parlare, perché il negazionismo è molto sostenuto da chi ha cuore e interessi per le fonti fossili ed è accompagnato da una campagna qualunquistica incessante: del resto, alla morte non ci si pensa mai, ed è parecchio complicato portare cattive notizie in una campagna elettorale eterna piena di promesse che peraltro si rinnovano in continuazione perché non se mantiene nessuna.
Il profeta di sventura è guardato con sospetto da un mondo che continua a consumare e a consumarsi e tutto sa inevitabilmente di punitivo e di ingiustamente costoso, anche perché ovviamente non si è chiarito che la benedetta transizione – o, meglio, rivoluzione – devono pagarla quelli che hanno più disponibilità economica: a chi non arriva alla fine del mese la fine del mondo pare un orizzonte troppo lontano e insomma non rilevante.
Il problema è che oltre a essere il mondo del consumo è anche quello dell’avidità e chi “può”, anziché intervenire, è a capo del fronte della negazione, per continuare a guadagnare come ha sempre fatto, incurante della rovina che si prospetta.
Ossigeno si chiama così perché continuiamo a pensare che il messaggio dovrebbe essere liberatorio, anzi, globalmente liberatorio. Perché i guasti si aggiustano tutti insieme o altrimenti non faranno che estendersi e peggiorare la situazione. Così per il clima, così per le disuguaglianze, così come i modelli produttivi, così come per la produzione – e l’efficienza – in campo energetico.
Il guaio è che ci vorrebbe una politica, anzi la politica. Che sappia presentare un grande progetto di riscatto e di liberazione, che metta in salvo le future generazioni (che poi sarebbero i nostri figli) e che si giochi il tutto per tutto. Anzi, per tutte e tutti. Sganciandosi dalle logiche di potere, ridimensionando il mondo del troppo e della dismisura, ritornando a esercitare un ruolo che le è mancato: perché se il genere umano è a rischio di progressiva estinzione, la politica pare essersi estinta già.
E, senza la politica, finirà molto male.
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