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Si può gioire per la vittoria di Sinner in Australia e al tempo stesso provare un qualche fastidio per la sua residenza in un Paese fiscalmente più vantaggioso del suo, che poi incidentalmente è pure il nostro? Non è una domanda complicata, e non ha a che fare con la legittimità delle sue azioni: come in molti si sono affannati a spiegarci in questi giorni, quello del tennis è un mondo difficile, vita intensa, felicità a momenti e soprattutto un continuo rimbalzare in giro per il mondo come una pallina in uno scambio di una finale al quinto set. Rimbalza oggi, rimbalza domani, trascorrendo in Italia pochi giorni all’anno, è perfettamente legale che Sinner possa risiedere, e quindi pagare le tasse, da un’altra parte. Almeno finché a qualche giudice disfattista e invidioso non gli girerà di andare a vedere ben bene se le cose stanno proprio così, come peraltro ogni tanto succede (capitò, tra gli altri, a Valentino Rossi, anche se in quel caso si trattava di Londra, e gli costò assai). Ma siamo sicuri che non è questo il caso.
Il Principato di Monaco, si è letto con dovizia di particolari in difesa del campione pel di carota, è un posto ideale per molti sportivi, e in particolare per i tennisti, che possono così allenarsi con altri campioni loro pari, e poi certo, perché lì le tasse, vedi a volte il caso, sono fantasticamente basse. Mica male. Anzi, viene da chiedersi, perché non ci trasferiamo tutti lì, per godere di altrettanto favore? Anche solo per i 300 giorni di sole all’anno, che un abitante della Val Padana se li sogna proprio. Beh, intanto perché per richiedere la cittadinanza monegasca e intestare laggiù i propri proventi al riparo dagli aguzzini fiscali del proprio Paese d’origine, oltre a comprare o affittare un immobile, bisogna depositare almeno un milione di euro. E quindi ciccia, almeno per la gran parte degli italiani, che ironicamente vengono tassati molto più di Sinner. Al quale, va detto, le polemiche sembrano scivolare di dosso (consulenti dei Ferragnez, prendete nota): freddo in campo, freddo fuori, davvero non gliene importa un fico secco, beato lui, sarà per il suo essere frontaliero, e quindi italiano per accidente. Sa benissimo che per un nonnulla della storia sarebbe potuto nascere austriaco, gli italiani gli tiferebbero contro e lui ora starebbe declinando l’invito al concerto di Capodanno di Vienna, quello con i valzer composti quando lì era tutto un friggere schnitzel.
Tutto bene, quindi, e certamente tutto legale anche se - possiamo dirlo? - non proprio edificante, ecco. In questo racconto, infatti, manca il pezzo utile a distinguere ciò che è lecito da ciò che è opportuno, o equo. Per esempio: il Principato di Monaco non fa parte dell’Unione Europea, ma che nel cuore del continente continuino a prosperare zone franche in cui chi è più ricco può eludere il fisco del proprio Paese, come dire, grida vendetta al cospetto di Vincenzo Visco. Che Sinner e i suoi pari reddito possano farlo, che sia legale, persino che facciano bene - giacché curano, egoisticamente parlando, i propri interessi - è un conto (letteralmente). Che sia bello, è un altro paio di maniche. Dirlo non è invidia per i suoi successi, ma ha proprio a che fare con essi: se fosse un tennista da dopolavoro che gioca nel weekend in qualche scalcagnato campo di periferia allora sì che gli farebbe comodo, che lo Stato italiano potesse attingere a una fiscalità più ampia per metterglielo a posto.
Ma così gira il mondo, ed evidentemente ci deve pure piacere: è notizia di oggi che Stellantis potrebbe trasferire altrove ulteriori produzioni, oppure che per farle stare qui lo Stato potrebbe diventare azionista del gruppo, ipotesi subito salutata con un certo interesse sia dal Governo che dal Pd. Stellantis è una multinazionale dell’auto, e come tale risiede un po’ dove gli pare, ovviamente: perché così può allenarsi con altre multinazionali, sapete com’è. Quindi, per favore, non scherziamo, non andatevene, prendetevi pure i nostri spicci, prendetevi tutto. È invece di qualche giorno fa la notizia che Elon Musk vorrebbe spostare la sede della Tesla in Texas, perché quei cattivoni del Delaware - che comunque, indovinate un po’, è uno Stato fiscalmente favorevolissimo - gli hanno bloccato un compenso da 55,8 miliardi di dollari che si era dato da solo nel 2018, e che sarebbe pari a 250 volte il compenso mediano di un Ceo. Cifra che, peraltro, gli servirebbe per far salire la sua quota di azioni intorno al 20 per cento, garantendogli un maggior controllo. Indispettito, ha lanciato un sondaggio su Twitter (cioè, X) in cui ha chiesto ai commentatori se trasferirsi o no. Ed è incredibile la quantità di persone che gli hanno risposto ma certo, ma vai, ma come, adesso uno non può più nemmeno registrare la sua azienda in un paradiso fiscale e darsi oltre 50 miliardi di bonus per scalarla? Allora è vero che non si può più fare niente.
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