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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Invasi

Il linguaggio è quell’insieme di suoni che, nel tempo, gli esseri umani hanno codificato in termini sui quali hanno più o meno tacitamente, con l’uso, concordato il suo significato. È un fondamento del vivere sociale per la nostra specie, questo accordo, perché se vedete uno che sta per finire sotto a un treno e gli urlate “fermo!”, e quello capisce “vai!”, come dire, è un problema.


Premessa a parte, è una grande annata per la frutta. In vaso. Nel senso che, se siete tra quelli che hanno quel tipo di pollice verde che si esercita non nei campi, ma sul terrazzino, avrete notato che l’alberello di ciliegie che tenete in vaso, un po’ sofferente perché quella dimensione non è la sua, e rapidamente gli va stretta, quest’anno ha prodotto un raccolto incredibilmente abbondante. Vale anche per le prugne, e per altre qualità fruttifere baciate da un clima evidentemente favorevole e dal fatto che, da padroni responsabili, le avete innaffiate regolarmente: col baigneur, come si chiama in Piemonte, sì insomma, con l’annaffiatoio (o innaffiatoio), mettendoci dentro l’acqua che esce dal rubinetto di casa. Che poi, chissà da dove arriva l’acqua del rubinetto, è una conoscenza che è andata persa.


Probabilmente, appunto, è colpa di un fraintendimento linguistico, si è persa cioè la capacità di distinguere tra in vaso e invaso, che sono in realtà due concetti molto differenti. Quest’anno, più che negli anni precedenti che già erano stati molto critici, l’Italia è nella morsa di una siccità pazzesca. C’è stata qualche pioggerella stagionale, a inframmezzare giornate di soffocante callara, ma quella è acqua che passa e se ne va, sciacquatura di piatti in uno scarico, servirebbe ben altro: servirebbe l’acqua dei ghiacci che si sono formati d’inverno, e che d’estate pian pianino si sciolgono e vanno verso i fiumi. Ma se d’inverno le montagne restano tanto verdi da poterci giocare a golf, pendenze a parte, d’estate non resta niente da sciogliere, e prima ci restano secchi gli invasi, e subito dopo i campi. Questo accade nel Paese dell’agroalimentare, fiore all’occhiello e pilastro dell’economia italiana, oltre che della sua cultura. E così, mentre prospera la piantina in vaso, quella a terra si secca, i fiumi diventano paesaggi di Dune e ci si rende conto che in effetti l’acqua non è come il piretro, non la si compra confezionata in uno spruzzino dal vivaista di fiducia, da qualche parte deve pur arrivare. E se non arriva, non c’è rubinetto che la possa creare dal nulla.


Sono concetti sui quali evidentemente non ci intendiamo più, per questo viene il sospetto che, nella nostra testa, le parole che usiamo per descriverli abbiano cambiato di significato. Sul modello di quanto fatto a Milano con il noto bosco verticale, per esempio, oggi molti architetti accarezzano l’idea di costruire grattacieli piantumati, indubbiamente belli a vedersi. Ma di nuovo, ecco questo ostacolo della lingua: un bosco è un superorganismo complesso, adatto a ospitare e far prosperare flora e fauna, che come per magia si alimenta da solo. Che si concima senza bisogno di intervento umano, che si bagna con le precipitazioni, coi fiumi, con gli invasi, ebbene sì. Un palazzo dotato di piante – ripetiamo, bello a vedersi, e forse anche a viverci, ad avere i soldi, molti – lo si può anche chiamare bosco, ma non lo è: è invece un costrutto di origine umana, artefatto, che se si guasta l’impianto centralizzato di irrigazione nel giro di pochi giorni si secca e muore.


Le parole sono importanti, come diceva quel tale: in inglese si usa dire “just semantics”, per difendere le proprie ragioni a prescindere dalla capacità altrui di argomentare. Per esempio, un gruppetto di attivisti l’altro giorno ha invaso a piedi un tratto del Grande Raccordo Anulare, come atto di protesta per la crisi climatica, accolti a dire il vero non benissimo dagli automobilisti in coda che hanno mal tollerato l’atto, senza che però nascessero particolari dibattiti su chi avesse invaso cosa. Invece, un recente sondaggio condotto in numerosi Paesi europei mostra che in particolare in Italia l’opinione pubblica sarebbe convinta che il più grosso ostacolo alla pace in Ucraina siano sia Putin che Zelensky, quasi a pari merito. Di nuovo il problema linguistico, che evidentemente è più profondo del previsto, se fuori dai raccordi il termine invaso provoca disaccordi, e viene frainteso anche nel suo altro significato, tanto da risultare indistinguibile da invasore. Certo, tra coloro che a ogni frase che pronunciano sentono di dover sempre premettere “c’è un invaso e un invasore” ce ne sono che non hanno in realtà nessuna soluzione che porti alla pace, e che fanno quella premessa solo per proseguire con una retorica bellicista. Ma da qui a sostenere il contrario ce ne passa, significa che davvero non ci capiamo più, e non è “solo semantica”.


E, se non ci capiamo più, forte è il rischio che prenda il sopravvento qualcuno capace di riportare i codici comunicativi al grado zero, a borborigmi gutturali primitivi, privi di sfumature. Cosa che, dopo un turno di amministrative in cui tutti hanno fatto finta di aver fatto un risultato diverso da quello realmente raccontato dai numeri, e a meno di un anno dalle politiche, può essere pericolosa. Ne risulta un messaggio che, se non è “io Tarzan, tu Jane”, poco ci manca: “Sì alla famiglia naturale, no alla lobby LGBT! Sì all’identità sessuale, no all’ideologia gender! Sì alla cultura della vita. No all’abisso della morte. Sì all’universalità della Croce. No alla violenza dell’Islamismo. Sì ai confini sicuri. No all’immigrazione di massa. Sì al lavoro della nostra gente. No alla grande finanza internazionale”. Dicesi invasata.

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