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  • Immagine del redattoreDavide Serafin

L’acqua ci travolgerà



Dire la verità - Otto storie nella crisi climatica è il nuovo libro di Davide Serafin pubblicato da People (lo trovate qui): pubblichiamo di seguito il primo dei racconti che contiene.


Quando arriva il monsone?

Sohan si guarda intorno, spaesato. Non tira un soffio d’aria a Tambaram, periferia Ovest di Chennai, India del Sud. Il termometro ha di nuovo toccato i cinquanta gradi. Cinquanta virgola sei. Il sole sembra volerti cuocere. Sembra l’occhio feroce di una tigre.

Da giugno si aspettano le piogge, ma il monsone si fa attendere. Questo è il duecentotredicesimo giorno senza pioggia. O il duecentoquattordicesimo. O il duecentoquindicesimo. Sohan ha perso il conto. Solo tre anni prima, le forti precipitazioni avevano sommerso tutta Chennai, compresa la sua casa. Era rimasto seduto sul tetto per tre lunghi giorni. Ora l’acqua è sparita, volatilizzata.


Sohan fa l’impiegato amministrativo. Per andare a lavorare attraversa tutta Chennai con la sua bicicletta.

Le strade sono solcate da tubi provvisori, da condotte arrangiate all’ultimo minuto. Ma sono secche. I tubi non portano da nessuna parte. Finiscono in un punto morto della grande città, in un groviglio che non serve a niente. Se si mettesse a seguirne il tortuoso percorso, si perderebbe nei sobborghi, tra le capanne di cartapesta, in mezzo ai più poveri fra i poveri. I tubi vuoti portano tutti là. Tutti i tubi sono vuoti, tranne uno. Sohan ha notato la differenza perché quel tubo non pesca da uno di quei pozzi dell’acqua grigia ma attinge direttamente da uno dei laghi a Nord della città. Forse quel tubo non è vuoto. Lo dice ad alcuni bambini, a Harshad, il figlio del suo vicino. Harshad ripete a pappagallo che quello è «il tubo dei ricchi, il tubo dei ricchi!». Poi scappa via verso casa. Sua madre, Kokila, porta ogni giorno sulla spalla un pesante vaso di plastica. Se a gennaio era costretta ad attingere al primo pozzo al di là della strada, a marzo è dovuta andare a prelevare l’acqua due strade più in là. Adesso deve fare più di un’ora a piedi per trovare un pozzo attivo. Kokila è sfinita. Ha la pelle secca, le labbra screpolate. Non si cambia di abito da una settimana, non c’è acqua per lavarsi. Kokila ha chiesto a Sohan di portarle un po’ d’acqua se può, quando tornerà da lavoro. Lei è terribilmente stanca. Sohan le ha detto di sì, che lo farà. Ha una tanica in più, la riempirà per lei.


Sohan guarda attentamente il cielo. No, anche oggi non pioverà. Quali sono i segni che indicano l’arrivo del monsone? Harshad continua a gironzolargli intorno. Sohan si siede sul ciglio della strada, come in attesa. Ha preso dal portapacchi della bicicletta la sua copia del giornale. Su The Hindu è scritto in piccolo che l’India è colpita da un’onda di calore. Harshad smette di gironzolare. Sohan è convinto che non sia un’onda ma che sia una mano, una grossa mano muscolosa che li sta schiacciando tutti. Harshad dice di aver fame. Poi dice di aver sete. «Vai a prendere l’acqua in casa, ne ho ancora» dice Sohan. Harshad allora sparisce dentro la porta aperta, nella penombra della piccola casa di Sohan, una modesta abitazione a due piani, con i muri scrostati e i segni dell’alluvione, il tetto piano, l’antenna della televisione storta. Su The Hindu scrivono che gli scienziati sono tutti concordi: l’onda di calore è frutto del cambiamento climatico, è causata dalle attività dell’uomo, dalla combustione degli idrocarburi fossili. Ma non è solo colpa del clima se nei tubi non c’è più un goccio d’acqua. È la cattiva gestione che ha prosciugato ogni risorsa idrica della città, scrivono sul giornale.

Harshad dice che l’acqua è finita. Ma come è finita? Sohan entra in casa con una lentezza indicibile. L’acqua è finita per davvero. Solo l’idea di rimettersi in cerca di un pozzo gli spezza i muscoli delle gambe. Si era alzato all’alba, questa mattina, per cercare di riempire la sua tanica.

«Che hai fatto?» chiede l’uomo a Harshad. «Niente» dice il bambino. «Avevo sete.» Era l’ultima goccia. L’ha bevuta Harshad.


Harshad comincia a toccare dappertutto. Si mette la tabacchiera sotto al naso e inizia a respirare profondamente. Forse si annoia. Sohan prende la tanica vuota. «Vieni con me» dice.

Harshad allora lascia cadere il contenitore del tabacco e corre appresso a Sohan. Siede sulla canna della bicicletta. I due si mettono in cerca di un pozzo. Percorrono Melandai Street fino in fondo, verso il tempio di Shiva. Le persone si accalcano l’una sull’altra. Harshad scende dalla bici e così Sohan. Chiede a un uomo se può attingere. L’uomo gli mostra il proprio catino. L’acqua è di colore grigio. È sporca, gli dice, ma nonostante questo la beve come se fosse purissima. Anche Harshad vuole bere. «Stai buono» gli dice Sohan.

I secchi vengono calati con una lunga corda in fondo al pozzo nero, quindi vengono raccolti rapidamente, a forza di mulinare con le braccia. Le donne sono rapidissime. Il caldo non fiacca il loro dinamismo e nemmeno una piega si forma sui loro abiti colorati, i capelli lunghi restano ordinati e raccolti dietro le spalle. Di fianco, a terra, una fila di vasi variopinti, fatti di plastica. Man mano vengono riempiti tutti e il loro colore sembra assorbire la torbidità del liquido contenuto, perdendo tutta la lucentezza. L’acqua versata a terra sparisce subito, ascende come uno spirito al cielo.


«Harshad!» grida Sohan. Il bambino si è allontanato. Ha visto due donne litigare furiosamente. Si è messo dirimpetto a loro, con le braccia sui fianchi. «Harshad!»

«Maledetta!» dice una donna all’altra. Si stanno contendendo un vaso. «Il vaso rosso è mio! Il vaso rosso è...»

Sohan scrolla Harshad per un braccio. «Vieni via!» Le donne continuano a bisticciare.

In quel momento sulla strada passa un’autobotte. Tira diritto, alzando un gran polverone. Tutti, i vecchi e i giovani, Sohan, Harshad e persino le due litiganti voltano lo sguardo. Il camioncino di colore blu della Metrowater, l’azienda municipalizzata, sferraglia davanti a loro come un miraggio. Qualcuno dice: «Seguiamolo!»

Harshad è il primo a fiondarsi dietro al camioncino. «Dove vai?» gli urla Sohan. D’istinto lo segue mentre gli altri uomini e le donne corrono più che possono. Sohan per un attimo guarda alla sua bicicletta, è indeciso, guarda le taniche, ripensa alla promessa fatta a Kokila, vede Harshad correre come un matto e, senza rendersene conto, viene sfiorato da un ragazzo in motorino, da un’auto, da un carretto a motore. Il caldo della strada lo dovrebbe annichilire e la sete pure, ma qualcosa lo spinge a rincorrere Harshad piuttosto che lasciarlo andare. Alcuni uomini con in pugno dei bastoni si aggiungono al gruppo e altri a bordo di motorini circondano il mezzo della Metrowater. L’autista suona più volte il clacson, poi qualcuno riesce ad aprire lo sportello e lo costringe a frenare. L’autista scende dal mezzo e viene preso a calci. Le donne fanno portare le taniche, altri uomini manomettono le bocchette e l’acqua limpida inizia a sgorgare sull’asfalto. Tutti si mettono in fila e si passano le taniche come se fosse una cosa normale assaltare un’autobotte e prenderne il contenuto. Anche Sohan aiuta il passamano e poco alla volta l’acqua viene distribuita. Nonostante ciò, qualcuno rimane con la tanica mezza vuota. Harshad si tiene stretto a Sohan. Hanno riempito solo un vaso, Sohan lo dividerà con Kokila. Domani andrà in cerca di altra acqua. In poco tempo si dileguano tutti, solo l’autista è rimasto lì, fermo, impotente, a osservare la razzia dell’autobotte.


Alla televisione parlano dell’assalto al mezzo della Metrowater. Altri scontri sono avvenuti nel resto della città. Chennai è una megalopoli, è molto vasta e raggiunge quasi undici milioni di abitanti. A parte la zona centrale, la vecchia Madras, la città coloniale urbanizzata, è fatta di catapecchie. E nelle catapecchie l’acqua non arriva, non ci sono tubi, ma solo condotte provvisorie, tirate abusivamente da un pozzo all’altro, da una casa all’altra, senza autorizzazioni, senza controlli. L’acqua è sempre stata un gran bel problema, per gli abitanti di Chennai.

Jaishankar è l’ingegnere esecutivo di Metrowater, il servizio idrico della città. Ha detto alla tv che le crisi idriche arrivano ogni cinque anni dal 1990, che però questa volta è molto più dura delle altre, al pari di quella del 2017, considerata storica. Sono falliti due monsoni, ripete lo speaker televisivo.

Da qualche giorno si è sparsa la notizia che a Besant Nagar, il quartiere turistico e commerciale di Chennai, c’è acqua in abbondanza. Al grand hotel Leela Palace, gli ha detto Kokila, hanno visto i turisti fare il bagno in piscina. Quella piscina blu, con i fiori, quella sulla terrazza. Prendono l’acqua dal tubo dei ricchi, quello che passa in mezzo al nostro quartiere e nessuno sa da che parte arrivi. Forse dai laghi, forse da Porur. Nessuno può avvicinarsi alla fonte di Porur. Sohan spegne la sigaretta. Alla tv compaiono le immagini di Dayanidhi Maran, uno dei volti di dmk, il principale partito politico di opposizione. «Il governo del Tamil Nadu è un governo corrotto! Non sono stati in grado di prevedere né di affrontare la crisi idrica!» grida dallo schermo. La sua espressione è severa e contrita. Ha un viso tondo, i capelli nerissimi. Una modesta camicia azzurra di ordinanza.

Un senso di grande frustrazione assale Sohan.


«Il primo ministro dovrebbe smetterla di minimizzare la crisi! Molti cittadini sono senz’acqua. I pozzi sono esauriti. Siamo in emergenza!»

Immediatamente dopo il servizio sulle dichiarazioni di Maran, lo speaker scandisce il comunicato del capo del governo del Tamil Nadu, Edappadi Palaniswami.

«Palaniswami ha dichiarato che il governo statale prevede di portare a Chennai dieci milioni di litri di acqua al giorno attraverso i carri ferroviari per i prossimi sei mesi» dice con tono tranquillizzante e abbozzando un mezzo sorriso. Il governo del Tamil Nadu farà arrivare l’acqua dalla città di Jolarpettai fino al distretto di Vellore. Ma a Jolarpettai non sono d’accordo. Sono sempre gli esponenti locali di dmk a parlare. L’intervistatore passa in rassegna le voci degli abitanti di Jolarpettai. Per ultimo fanno parlare Durai Murugan, un uomo dall’aspetto ieratico, inquisitorio. Murugan è un politico di lungo corso. È il segretario generale di dmk ed è membro dell’assemblea legislativa del Tamil Nadu dal 1971. È stato anche ministro dei Lavori pubblici, ma ora è all’opposizione.

«Se iniziano a prendere l’acqua da qui, metteremo in scena un’enorme protesta» fa appena in tempo a dire prima che Sohan spenga la televisione. Sohan resta con le braccia conserte in mezzo alla penombra della stanza. L’orologio segna le otto e trenta.

Ha sete, Sohan. Ha voglia di un bagno. Forse è meglio uscire, pensa. In ufficio non andrà, l’azienda è chiusa perché manca l’acqua. Centinaia di persone sono rimaste a casa, oggi non lavoreranno. Harshad bussa alla sua porta ed entra di corsa. È fatto così, Harshad. Entra ed esce da casa sua.

«Non vai a scuola?» gli chiede Sohan.

«A Besant Nagar! Andiamo a Besant Nagar» fa Harshad, senza aggiungere altro.

«Andiamo chi?» chiede Sohan. Lo ha preso una stanchezza indescrivibile. Qualcosa gli suggerisce che sarebbe meglio star seduti sul divano, oggi. Forse è il caldo, il caldo inarrestabile e opprimente.

«Presto!» gli dice Harshad.


Si lascia trascinare dal bambino. Prendono la bicicletta, Harshad è seduto sulla canna. Una piccola folla si è radunata al centro di Tambaram. Ci sono uomini e donne. Le donne portano il bindi, il punto di colore rosso in mezzo alla fronte. Ciascuna ha con sé un vaso di plastica, vuoto. Scandiscono alcuni slogan, del genere “acqua per tutti”, “anche noi siamo di Chennai”. Li ripetono ossessivamente, come un vecchio mantra induista.

La discussione va avanti animatamente senza che si trovi un accordo. Altri si aggiungono. Si nota chiaramente che le persone che guidano i rivoltosi sono tutti uomini, indossano tutti la camicia bianca, sono gli uomini di dmk. Da lontano, alcuni agenti di polizia osservano senza intervenire. I manifestanti vogliono entrare a Besant Nagar, il quartiere ricco. Altri vogliono entrare al Leela Palace, ma i due posti distano fra di loro alcuni chilometri, a piedi ci si mette oltre un’ora. Li divide nel mezzo il fiume Adyar, quasi secco. «Potremmo attraversarlo a piedi» dicono alcuni. «Potremmo prendere i mezzi pubblici» dice una donna. Si sono mai visti i manifestanti di una protesta di piazza prendere i mezzi pubblici? Gli uomini con la camicia bianca la zittiscono e la rimandano nelle retrovie. È vero, a piedi ci si metterebbero troppe ore. «Ma dobbiamo andare là» dicono. Allora gli uomini con la camicia bianca fanno arrivare tre carri, le persone vengono caricate sul pianale come le bestie, poi i mezzi si rimettono in moto spargendo un odore nauseabondo di nafta e di olio bruciato. Sohan e Harshad seguono i carri con la loro bicicletta e tutta Chennai passa loro intorno: le casette colorate, i vicoli pieni di motociclette, di persone e dei loro volti, persone che non sanno che fare, che frugano, cercano, si dibattono da un angolo all’altro nel tentativo di recuperare un po’ di acqua. «Venite con noi» gli dicono. «Andiamo a Besant Nagar!»


Quante città vivono e si moltiplicano dentro Chennai? Una infinità. Città che Harshad non aveva mai visto. Città di cui Sohan aveva solo sentito parlare. Perché è difficile arrivare sino alle spiagge. Per esempio, a Elliot’s Beach, dopo lo tsunami del 2004, Sohan non ci aveva messo più piede. È una zona vietata, per lui. Una zona rossa. Mai più Elliot’s Beach, aveva promesso a se stesso, molto tempo fa.

«Voglio vedere la spiaggia» dice Harshad. Sohan non gli risponde. Lo sforzo della pedalata e alcuni pensieri lo tengono distante.

«Voglio vedere la spiaggia» dice Harshad.

Il caldo è un pugno chiuso sulla testa, la sete si moltiplica, ma ormai forse non vale nemmeno più la pena farci caso. La sete ti attanaglia come un brutto sogno, nulla di più, nulla di meno.

Quando arrivano a Besant Nagar dietro ai carri si è formata una folla. Tutti chiedono l’acqua dei ricchi. Vogliono l’acqua della piscina del Leela Palace, vogliono fare il bagno. Ma al loro arrivo trovano uno schieramento di poliziotti tutto intorno all’hotel e per le vie principali di Besant Nagar, in particolare sulla Promenade. Il modo più veloce per raggiungere l’hotel è infatti attraversare la stretta lingua di sabbia che collega il quartiere e attraversa l’estuario del fiume Adyar.

La folla però riesce a rompere il cordone di polizia e così iniziano gli scontri. Alle manganellate segue il lancio dei lacrimogeni. Alcuni uomini danneggiano delle auto in sosta. Una di queste, una berlina di colore scuro, viene rovesciata. Gli uomini gridano: acqua per tutti! I poliziotti difendono con dei bastoni di legno una linea immaginaria sull’asfalto. Il vento dell’oceano scompiglia i capelli. Al di qua della linea gli ultimi stanno ai margini, mentre al di là i privilegiati possono nuotare in acque purissime, rigenerarsi a scapito della moltitudine che viene pestata, colpita. Besant Nagar è come un parassita che sottrae risorse, energia, acqua, aria a tutto il resto della città che non ha alcun anticorpo in grado di difenderla.


La reazione della polizia spezza in due il troncone dei manifestanti che per metà finisce verso la spiaggia. Sohan e Harshad vengono sospinti con la loro bicicletta proprio in quella direzione. Alla vista dell’oceano, Sohan ha un giramento di testa. «Che ti prende?» gli chiede Harshad. Sohan si allontana da lui, gli volta le spalle. Il bambino resta ammutolito. Soffia un vento particolarmente forte. Sohan si avvia verso l’acqua, verso le onde potenti che si frantumano sul bagnasciuga. Getta la bicicletta nella sabbia. «Sohan!» grida Harshad. Il bambino gli corre appresso mentre alle loro spalle è la rivolta.

Sohan si lascia andare a terra, sulle ginocchia. «Che ti prende, Sohan?» Il bambino è accanto a lui. Lo scuote prendendolo per un braccio. Lo chiama ripetutamente.

Le onde robuste si spezzano poco distanti da loro e il vento si riempie di minutissime goccioline salate che Harshad assapora succhiando con le labbra le sue mani e le sue braccia. Lo sguardo di Sohan è tornato a quindici anni prima. «Tu non eri ancora nato» dice a Harshad.

«Il mare si era ritirato. L’acqua se ne era andata da Chennai. Sembrava una cosa speciale, tutti eravamo andati a vedere. Anche Tejal. Tejal era la mia ragazza, il mio amore. Poi l’acqua era tornata indietro. L’abbiamo vista arrivare. Sembrava alta come un palazzo, grigia come un pezzo di ferro. Siamo scappati ma non abbiamo fatto in tempo.

Tejal è sparita fra le onde e così io. Ho potuto solo vedere la sua testa colpita da un’imbarcazione che fluttuava nelle acque nere. Mi sono ritrovano almeno dieci chilometri più in là, ero ancora vivo. Questo è tutto quello che so, quello che ricordo. So che l’acqua è una maledizione.»

«L’acqua ci travolgerà di nuovo?» chiede Harshad.

Alle loro spalle si sentono i colpi e il fracasso, le grida, le spinte, il disordine, la paura.

Lo sta già facendo.

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