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Immagine del redattoreFranz Foti

L’età degli oligarchi made in Usa



Quando, verso la fine di aprile, Elon Musk ha annunciato la sua intenzione di comprare Twitter, uno dei più longevi e frequentati social network del mondo, la notizia è stata una di quelle in grado di rompere Internet, e con esso tutto il sistema mediatico occidentale: per giorni non si è quasi parlato d’altro, malgrado una crisi internazionale come non se ne vedevano da decenni e pur essendo ancora nel pieno di una pandemia globale ben lontana dall’essere terminata. Pochi mesi dopo, mentre si scrive questo articolo, un’altra notizia esplode nell’universo delle news a ciclo continuo: l’autoproclamato technoking di Tesla ha deciso che in effetti no, Twitter non lo vuole più.

Il coronamento perfetto di queste poche settimane di trattativa, in cui l’uomo più ricco del mondo ha vaneggiato del suo desiderio di rendere il volatile social network un faro della libertà di espressione e della democrazia su scala globale, mentre sulla stessa piattaforma twittava emoji di escrementi al Ceo della compagnia, bloccava chiunque lo contraddicesse, condivideva fake news, visioni discutibili sul Covid e un po’ del pot-pourri di lepidezze da incel che attraggono l’immotivato interesse dei ben 80 milioni di follower che Musk può vantare.

Probabilmente non sapremo mai se Elon Musk abbia davvero avuto intenzione di comprare Twitter, né al momento è possibile ipotizzare l’esito della causa multimiliardaria che il consiglio di amministrazione del social network ha intentato contro di lui, accusandolo di aver violato l’accordo di acquisizione firmato qualche mese fa.


Secondo l’editorialista di Bloomberg e celebre analista finanziario Matt Levine, «se un miliardario e amministratore delegato di una società quotata in borsa si offre di acquistare un’altra società, le probabilità che stia scherzando sono piuttosto basse. Quando è Elon Musk, le probabilità sono tipo 50/50».

Quando c’è di mezzo Elon Musk, ci permettiamo di aggiungere, non c’è mai un unico fine da analizzare, nemmeno quando si tratta di uno scherzo, o meglio di quella che lui – ritenendosi un genio estraneo alle convenzioni – considera una provocazione situazionista.

Quando, mesi fa, ha annunciato su Twitter che avrebbe potuto da un momento all’altro riacquisire le azioni di Tesla e toglierla dal mercato azionario, era una provocazione o il tentativo consapevole – peraltro riuscito – di influenzare il mercato stesso, facendo crollare il valore delle azioni della sua compagnia, e permettendogli così di rastrellarne un bel po’, in attesa di un secondo annuncio – stavolta positivo – che le avrebbe fatte risalire, mettendosi in tasca di conseguenza un bel profitto? Potrebbe sembrare la volgare speculazione di un bieco nemico del capitalismo, non fosse che la Security and Exchange Commission, cioè l’ente americano che vigila sul mercato azionario, ha pensato la stessa cosa. Purtroppo, come spesso accade in questi casi, la SEC ha punito Musk obbligandolo a dimettersi dal ruolo di Ceo, ma permettendogli di restare l’azionista di maggioranza, e gli ha comminato una multa che per l’uomo più ricco del mondo equivale grossomodo a un buffetto molto dolce sulla mano. Possiamo quindi immaginare che, anche nel caso fosse tutto un grande scherzone – magari una ripicca verso i vertici del suo social network preferito, colpevoli di non amarlo particolarmente e di aver messo al bando il suo carissimo amico Donald Trump –, ci fosse dietro qualcosa di più? Di certo i movimenti di borsa di questo periodo sono stati a dir poco tumultuosi, grazie anche al periodo straordinariamente negativo che vive l’economia mondiale, a causa della crisi energetica, della guerra, delle difficoltà post-ma-nemmeno-tanto-post-Covid.

Proviamo invece a immaginare cosa potrebbe averlo spinto a comprare Twitter, se davvero fosse stata quella la sua intenzione. È legittimo avanzare qualche dubbio sul suo annunciato desiderio di trasformarlo in una sorta di celebrazione vivente della libertà di espressione e in un laboratorio di nuova democrazia. Curioso che sia proprio uno come Elon Musk a dichiararsi un “assolutista” in fatto di libertà di parola. Intendiamoci, quando parla della sua libertà, o di quella dei suoi amici, c’è da credergli. Lui è assolutamente convinto di poter dire e fare ciò che vuole a chiunque in qualsiasi momento. È evidente. È altrettanto evidente che quando prende in simpatia qualcuno – in fondo lo facciamo un po’ tutti, no? – è molto generoso nel concedergli grande libertà di azione. D’altro canto, nelle poche settimane in cui di fatto già si comportava da capo di Twitter – e non usiamo il termine a caso: è stato lui a dichiarare, durante un incontro coi dipendenti del social network, che per lui i ruoli aziendali non hanno alcun valore, e che una volta acquisita la società la gente avrebbe dovuto fare quello che diceva lui, indipendentemente da chi fosse l’amministratore delegato –, l’unica proposta concreta che ha fatto per restaurare la libertà di parola nel mondo dell’uccellino azzurro è stata quella di voler revocare la messa al bando di Donald Trump. In fondo, cosa mai aveva fatto di male l’ex Presidente, se non utilizzare Twitter per aizzare una folla all’aggressione delle massime istituzioni democratiche statunitensi, con il probabile obiettivo di un sostanziale colpo di Stato? Allora è vero che non si può più dire niente, di questi tempi.


Assodato quindi che alla sua libertà e a quella della sua cerchia Musk tiene moltissimo, siamo proprio sicuri che tenga anche alla nostra? Considerando il fatto che Musk è piuttosto liberale nell’utilizzo della funzione di blocco – cioè nell’impedire a chi non gli piace di avere qualsivoglia contatto con lui su Twitter, oscurandogli anche la visione delle sue attività e impedendogli persino di citarlo nelle conversazioni – , non solo verso semplici utenti colpevoli di non essere suoi fan, ma anche nei riguardi di figure pubbliche e giornalisti, si potrebbe avanzare l’ipotesi che la libertà di parola che ha in mente per noi non sia così assoluta. Certo, un blocco personale non equivale a un tentativo di silenziamento vero e proprio. Quando, però, qualche tempo fa un ragazzino un po’ pestifero ha deciso di utilizzare i dati – totalmente pubblici e accessibili a chiunque – sul traffico aereo per creare un account Twitter che aggiornava il mondo in tempo reale sugli spostamenti del jet privato del patron di SpaceX, questi, agendo nello spirito della massima libertà di parola, lo ha contattato privatamente offrendogli cinquemila dollari per chiudere il suo account e per aiutarlo a proteggersi da altre “violazioni della sua privacy”. Antidemocratico? Difficile a dirsi. Certamente spilorcio, considerando che cinquemila dollari per lui sono decisamente meno delle monete da un centesimo che accumuliamo negli svuotatasche delle nostre case senza sapere mai bene cosa farcene. E se la spilorceria non è un reato, il tentativo di insabbiare i diversi casi di molestie sessuali perpetrati proprio negli stabilimenti Tesla e denunciati da diverse sue dipendenti è per lo meno deplorevole, come lo è quello di nascondere al pubblico i molti difetti del sistema di autoguida a intelligenza artificiale delle sue mirabolanti automobili elettriche. Quanto alla sua visione della democrazia, basti citare due esempi. Il primo è il suo provocatorio augurarsi la morte di Bernie Sanders quando questi ha invocato la tassazione degli enormi profitti fatti da Musk durante i primi mesi della pandemia. Il secondo è la sua recente, celebratissima e convintissima adesione al partito repubblicano, che ha spiegato facendo un simpatico e irreverente scarabocchio in cui mostrava come lui fosse rimasto fermo sulle sue storiche e libertarie posizioni, mentre erano i democratici a essersi spostati all’estrema sinistra. D’altro canto i dem hanno realmente esagerato, avendo appena eletto come Presidente un pericoloso estremista come Joe Biden, mentre i repubblicani possono vantare di essere guidati da uno statista moderato e inclusivo come, appunto, la povera vittima della censura bolscevica di Twitter, Donald Trump. Ma guardando oltre le sparate del multimiliardario di origine sudafricana su democrazia e libertà, due argomenti di cui evidentemente sa poco o nulla, anche volendo credere che davvero avesse intenzione di comprare Twitter, siamo sicuri che fosse sua intenzione dilettarsi in ingegneria sociale da bar sport – o meglio da country club – e non qualcosa d’altro?

In fondo, lui stesso ha detto che la sua Tesla è una compagnia che si occupa di robotica e intelligenza artificiale, più che di automobili. E cosa se ne fa un magnate dell’intelligenza artificiale di un social network come Twitter che – a differenza di Facebook, Instagram o YouTube – non ha mai saputo capitalizzare gli spazi pubblicitari? Esattamente come quando Microsoft ha acquisito un social network apparentemente ben poco interessante dal punto di vista commerciale come LinkedIn, anche nel caso di una (ormai improbabile) acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, è probabile che la ragione vera sia l’accesso all’enorme mole di dati che i 450 milioni di utenti mensilmente attivi sulla piattaforma condividono continuamente con i loro tweet, i loro messaggi, le loro ricerche e i loro click. Un patrimonio che, nell’era, appunto, delle intelligenze artificiali, è per l’odierno oligarca decisamente ben più prezioso della sua passione per gli scherzi da bulletto delle scuole medie e delle sue farneticazioni su libertà e democrazia. E l’ambizione di Musk di mettere le mani su quel patrimonio di dati dovrebbe preoccuparci persino di più, o per lo meno altrettanto, delle sue aspirazioni da custode della democrazia, o delle sue scorrerie da pirata del mercato azionario.


Nel corso degli ultimi anni sono stati fin troppi gli spazi di informazione e di discussione pubblica finiti nelle mani di questi oligarchi – che ci ostiniamo a non considerare come tali solo perché nati dal lato sbagliato degli Urali –, con l’esempio più eclatante, ma tutt’altro che isolato, dell’acquisizione del Washington Post da parte del patron di Amazon Jeff Bezos. Questo è un elemento di assoluta e legittima preoccupazione, perché è del tutto evidente che gli interessi che questi organi di informazione e discussione difenderanno non saranno quelli del grande pubblico. Peraltro, nella storia degli Stati Uniti questo è già accaduto: pensiamo alla cosiddetta Gilded Age, quel periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in cui era massimo il potere dei grandi capitalisti, che concentravano enormi ricchezze ed esercitavano pressioni senza precedenti sull’economia e sulla politica del Paese, anche grazie ai media di cui erano in larghissima parte proprietari. Fu un periodo, quello, di grandissime disuguaglianze, di enormi divisioni socio-politiche e di vergognosi tumulti xenofobi. Il tutto culminato in una guerra mondiale e in una pandemia globale. Molti analisti americani intravedono delle forti similitudini tra quel periodo storico e quello che viviamo oggi, con i Bezos, i Musk, gli Zuckerberg a sostituire gli Hearst, i Gould e i Rockefeller. Solo che all’epoca, a opporsi a quelli che venivano definiti i robber barons (letteralmente i ‘baroni rapinatori’), ci fu una figura politica di assoluto spessore come Teddy Roosevelt, che dedicò gran parte del suo mandato di Presidente a lottare contro lo strapotere dei grandi capitali. Biden non sembra avere né la forza né l’interesse di fare altrettanto, eppure mai come oggi – senza voler per questo invocare gli esiti subiti dai congiurati dell’era repubblicana – avremmo disperatamente bisogno di qualcuno che si alzi e chieda a gran voce «quousque tandem, Elon Musk, abutere patientia nostra?». (dal numero 9 di Ossigeno, settembre 2022)

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