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  • Immagine del redattoreMauro Zola

L’ibrida made in Italy che poteva essere (e non fu)



Sarebbe ingeneroso addossare al solo Sergio Marchionne il ritardo con cui Fiat ha affrontato lo sviluppo di una gamma a trazione elettrica. Questo perché la scarsa attenzione all’innovazione tecnologica, messa in secondo piano rispetto alle priorità finanziarie, era già emersa chiaramente sotto la gestione di Cesare Romiti. Nel 1990 il Centro Ricerche Fiat di Orbassano, con la collaborazione di Magneti Marelli, aveva sviluppato il sistema di iniezione common rail, componente destinato a rivelarsi rivoluzionario per i motori diesel, il cui mercato stava esplodendo. Invece di sfruttare in proprio la scoperta il gruppo decise di cederla, nel 1994, a Bosch. Bastò un’ultima messa a punto per conquistare il mercato mondiale.

Un anno prima Umberto Colombo, ministro dell’Università e della Ricerca del governo Ciampi, era intenzionato ad avviare lo studio di un modello di auto ibrida, varando con Fiat il cofinanziamento di un piano pluriennale. L’avvio era stato fissato per il 1994, ma in quell’anno erano in programma le elezioni politiche. Vinse Silvio Berlusconi, cambiarono i progetti e le priorità. Quella dell’auto ibrida finì subito in fondo alla lista e in un secondo tempo il progetto venne chiuso, senza che da Fiat ci si opponesse, lasciando intendere che il sì al cofinanziamento era arrivato soltanto per compiacere il ministro. Proprio in quegli anni Toyota stava lavorando sulla Prius, entrata in produzione nel 1998 e da allora la più venduta auto ibrida al mondo. Fiat sarebbe stata in grado di sfidare il colosso giapponese? Non lo sapremo mai.


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