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  • Immagine del redattoreAlice Cavalieri

La lettera scarlatta: A come astensione



Démos e krátos: ‘popolo’ e ‘potere’. Il popolo che governa, in modo diretto o indiretto. Nelle democrazie moderne, il popolo è titolare della sovranità ma non esercita “in proprio” il potere. Lo fa per mezzo di rappresentanti. Si chiama democrazia rappresentativa: un sistema – detto in modo semplicistico – caratterizzato da due passaggi. Nel primo, i cittadini partecipano alla vita politica esprimendo il loro voto. Nel secondo, gli eletti entrano all’interno delle istituzioni con lo scopo di rappresentare i cittadini. Il circuito della rappresentanza nei sistemi democratici è corredato da quella che in gergo tecnico si chiama accountability: ‘rendicontazione’. L’accountability indica la possibilità di premiare/punire lo schieramento, il partito, il rappresentante per il quale si è votato in precedenza, scegliendo quindi di riconfermare la propria scelta oppure di farne una differente. È il terzo passaggio del circuito: voto, mandato, rendicontazione. Se manca quest’ultimo, fondamentale, aspetto c’è un chiaro deficit democratico (cfr. Gianfranco Pasquino, Quel che manca alle democrazie, il Mulino, Fascicolo 3, maggio-giugno 2018). Ma lo stesso vale anche se manca il primo passaggio.

Il voto serve a strutturare la rappresentanza, il risultato del voto indica le preferenze degli elettori in quel momento e, con l’intervento della legge elettorale che decide la ripartizione dei seggi, permette che le diverse istanze abbiano una voce dentro le istituzioni. Il voto serve, è uno dei pilastri della democrazia. Oggi, in effetti, si vota moltissimo. O meglio, ci sono moltissime occasioni in cui il popolo è chiamato a esprimere il proprio voto. Referendum, elezioni nazionali, regionali, comunali, ma anche europee. Così che il tragitto tra l’abitazione in cui si risiede e la scuola adibita a seggio elettorale – locazioni sempre identiche a loro stesse – è ormai un percorso battuto e quasi automatizzato. Dal 2 giugno 1946, in cui è stato chiesto agli italiani – e, per la prima volta, anche alle italiane – di scegliere tra monarchia e repubblica, alle elezioni del 25 settembre 2022, si è votato 50 volte. Un voto ogni anno e mezzo, in media. E il conteggio esclude elezioni comunali, provinciali e regionali. Data l’assiduità, non avremmo forse mai pensato che il cittadino medio potesse deviare dal percorso.


Invece, all’alta frequenza delle tornate elettorali è andato via via corrispondendo un incremento di coloro che hanno preferito dirigersi verso il bar, andare al mare o rimanere a casa. Il fenomeno potrebbe sembrare quasi paradossale, di primo acchito, ma le spiegazioni sono molteplici e tutt’altro che banali. Il crescente astensionismo però non è una patologia unicamente italiana, né è scoppiata all’improvviso. È piuttosto una lunga malattia degenerativa che colpisce ormai da molti anni le democrazie “mature”, in particolare quelle occidentali, e che progressivamente le logora dall’interno. In questo panorama di malessere condiviso, l’Italia è stata per molto tempo uno dei Paesi in cui l’elettorato partecipava di più al voto, rispetto a molti altri vicini europei. Anche se una bassa partecipazione non ha conseguenze a livello pratico, sul piano teorico pone un grande interrogativo, che riguarda la legittimazione, e quindi la legittimità, delle istituzioni e delle scelte che i rappresentanti prendono per conto del popolo. Popolo che, in misura sempre minore, ha dato mandato a quei rappresentanti. Per questo il dilagante astensionismo rappresenta, oggi più di ieri e probabilmente domani più di oggi, una delle questioni più delicate e perniciose che le democrazie si trovano a dover affrontare. Come se non bastasse tutto il resto.

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