A sei mesi dall’inizio delle proteste anti-regime in Iran, la proposta intellettuale emersa dal basso per una transizione di potere è un potentissimo manifesto contro la teocrazia iraniana ma anche contro una fantomatica “occidentalizzazione” della società iraniana. Il documento in questione è la Carta pubblicata il 16 febbraio 2023 da venti associazioni della società civile comprendenti sindacati, associazioni dei lavoratori e lavoratrici e associazioni femministe, sostenuta da un numero crescente di intellettuali iraniani in esilio.
La Carta, simbolicamente pubblicata nel mese del quarantaquattresimo anniversario della rivoluzione iraniana del 1979 che portò all’instaurazione della Repubblica Islamica, pone dodici condizioni minime per un cambio di regime – rivolgendosi al potere a Teheran ma anche al resto del mondo e affermando prima di tutto l’importanza che il cambio di potere venga dall’interno della società iraniana e non dall’esterno, come molti fuori dal Paese auspicherebbero.
Vale la pena soffermarsi sul testo proposto, per comprendere l’origine intellettuale di una protesta che lega a doppio filo alcuni fondamentali diritti umani all’emancipazione collettiva del popolo iraniano, sul piano politico e sul piano economico, ribadendo con forza l’inscindibilità tra i due piani.
Prima di tutto, la Carta rende esplicita l’interdipendenza tra «misoginia, discriminazione di genere, insicurezza economica continua, schiavitù lavorativa, povertà, miseria, oppressione di classe e oppressione etnica e religiosa». Si tratta di una diagnosi per nulla scontata, soprattutto per molti analisti e politici occidentali che negli ultimi mesi si sono impegnati a enfatizzare la rivolta delle donne per il velo, segnale di una presunta “occidentalizzazione” del Paese (come se l’Occidente fosse l’inizio e la fine di tutto e, soprattutto, l’unica lente possibile per inquadrare la lotta contro l’oppressione politica) e contemporaneamente a sminuire, denigrare e censurare il contributo dei lavoratori che si sono uniti alla protesta delle donne, portando la loro critica contro le politiche neoliberali della Repubblica Islamica. Un esempio fulgido di questa tendenza è rappresentato da Carlo Calenda che ha pubblicamente bollato come «un’idiozia» – senza peraltro fornire ulteriori argomenti – l’importante analisi delle componenti lavoratrici della protesta in Iran, pubblicata dalla studiosa Stella Morgana l’8 dicembre 2022 sulla Rivista Il Mulino, seguito da una paradossale campagna mediatica guidata dal Foglio contro l’autrice dell’articolo.
La Carta mette in chiaro che quella in corso è una rivoluzione contro «ogni forma di tirannia religiosa e non religiosa che sia stata imposta sul Paese nel corso dell’ultimo secolo». Difficile non vedere qui un forte messaggio rivolto non solo al regime iraniano, ma anche al figlio dell’ultimo shah, Reza Pahlavi – che dagli Stati Uniti continua a reclamare il potere monarchico nel Paese, rifiutando di riconoscere la natura tirannica del potere di suo padre – e alle potenze occidentali che avevano sostenuto dall’esterno la repressione del popolo iraniano da parte dello shah e che continuano (almeno in alcuni circoli di potere) a sostenere le ragioni di un cambio di regime imposto attraverso un’invasione militare. In modo ancora più esplicito, il movimento si dice impegnato a «mettere fine per sempre alla formazione di qualsiasi potere dall’alto» e a rappresentare «l’inizio di una rivoluzione sociale, moderna e umana che liberi le persone da ogni forma di oppressione».
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