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"La mafia uccide, ma il silenzio pure": nel ricordo di Peppino Impastato



Cosa avrei dovuto fare? Ditemi, cosa avrei dovuto fare? Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio di due anni prima, lo aveva detto chiaro e tondo: «È vero, la mafia uccide, ma il silenzio pure».

Il silenzio e l’indifferenza possono uccidere. Per questo accettai quella proposta. All’epoca io, Carmelo Iannì, ero un imprenditore e gestivo un albergo che si affacciava sul mare di Villagrazia di Carini, pochi chilometri da Palermo. Ad aiutarmi, la mia bellissima famiglia.

Come tutti gli imprenditori, ero fiero del mio lavoro e di quello che avevo creato. Sorrisi, simpatia, cordialità e disponibilità erano alla base del mio lavoro. Poi arrivò quel giorno. Quel giorno di agosto del 1980.

In quegli anni era la droga il business più redditizio della mafia. Cosa Nostra forniva un terzo del fabbisogno del mercato mondiale, quattro tonnellate di eroina pura all’anno. Ma aveva bisogno di esperti nella raffinazione.

Faceva caldo, in quell’agosto del 1980, molto caldo, quando si presentarono tre nuovi clienti chiedendo di poter soggiornare nel mio albergo. Erano francesi, di Marsiglia. Ma non erano turisti venuti in Sicilia per ammirare le bellezze dell’isola.


Lo compresi qualche giorno dopo, quando la polizia si presentò nel mio ufficio, con una richiesta: poter infiltrare tra il personale dell’albergo alcuni poliziotti come camerieri e portieri. Uno dei tre era André Bousquet, il miglior chimico marsigliese in circolazione.

Vi rifaccio la domanda. Ditemi, che avrei dovuto fare? Se la mafia uccide, ma il silenzio e l’indifferenza pure, potevo io tirarmi indietro? La più grande operazione antidroga dipendeva da me. E così acconsentii. Naturalmente, tenni la mia famiglia all’oscuro di tutto.

Una ventina di giorni dopo vedemmo i loro volti al telegiornale, mentre venivano arrestati. Un’operazione di altissimo livello. Il 24 agosto 1980 la polizia aveva fatto irruzione in due raffinerie di Carini e Trabia, arrestando anche il boss Gerlando Alberti, "u Paccarè".

Tutto è bene quel che finisce bene, direte voi. Non proprio. Anzi, per niente. La polizia commise un errore imperdonabile. Tra coloro che realizzarono l’arresto, c’erano anche i poliziotti che avevano lavorato, da infiltrati, nel mio albergo. A volto scoperto.

Non ci volle molto all’Alberti per capire quale ruolo avessi avuto. Lo scoprii quattro giorni dopo, il 28 agosto 1980, alle 15:30 circa, quando due giovani misero fine alla mia vita.

Mi spararono nella hall del mio albergo, per aver scelto di stare dalla parte giusta.


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