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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

La moratoria sulle riforme di M


Un po’ a sorpresa, Matteo Renzi è stato il primo ad annunciare il suo appoggio al referendum per abolire l’autonomia differenziata. Ma attenzione, non a quello sul jobs act, comprensibilmente, visto che era nato proprio durante il suo governo. La notizia, comunque, è che Renzi vorrebbe togliersi la soddisfazione di vincerne almeno uno, di referendum, nella sua carriera. Poi, nel giro di poche ore, contro l’autonomia si sono unite le altre opposizioni, anche se non tutte avevano ritenuto di farsi vedere in piazza Santi Apostoli per il comizio in versione espressa organizzato subito dopo l’approvazione della legge.

 

Beh, bene, verrebbe da dire, finalmente. Solo che… c’è sempre qualche “però” a rovinare la festa, purtroppo. Perché va bene l’unità delle opposizioni, ci mancherebbe, e di certo per vincere i prossimi referendum servirà tutta la mobilitazione possibile. “Però”, appunto, spiaze ricordare che l’autonomia differenziata è figlia della riforma del Titolo V, fatta dal centrosinistra; che pare si stiano mobilitando pure le regioni, cosa che eviterebbe di dover raccogliere le firme, ma che molte regioni governate dalla sinistra sono state lungamente, e forse lo sono ancora persino oggi, in prima linea nel volere questo genere di autonomia; che il jobs act viene da un Governo a guida Pd col voto quasi unanime di tantissimi che poi sono gli stessi che ancora son lì senza fare una piega; che il premierato meloniano è solo l’ennesimo di tot tentativi di riforma della Costituzione, non pochi dei quali promossi anche da chi raccoglierà le firme parlando magari di torsione autoritaria, giustamente per carità, ma con una certa dose di schizofrenia.

 

Molti slogan, a partire dal più banale “spacca Italia”, sanno di stantio, come molta della propaganda di chi si straccia le vesti oggi dall’opposizione, per cose che ha fatto o ha tentato di fare ieri quando governava. E siccome si viene pure da un turno di amministrative e si va al ballottaggio dove previsto, il ragionamento si potrebbe applicare uguale uguale a tutti quei comuni caratterizzati da un minimo di alternanza in cui si sono sentiti i candidati locali della minoranza uscente dire che “serve un cambiamento per fermare il declino”: spesso sono gli stessi che governavano cinque anni fa, davvero si vuol far credere ai cittadini che è bastato un misero lustro per trasformare una polis splendente in una suburra decadente? Non hanno anche loro permesso di costruire centri commerciali uno sull’altro pur di incassare due spicci di oneri di urbanizzazione? Non sono gli stessi che quando indossavano la fascia tricolore se ne catafottevano del consumo di suolo? Non hanno dormito beati mentre gli affitti brevi rendevano impossibile ai residenti mettersi un tetto sulla testa senza svenarsi?

 

Si parla tanto di disaffezione, di astensionismo, ma come non sentirsi presi per il sedere quando i leader e i partiti che dovrebbero rappresentarci sono così strumentali, e così indistinguibili quando gli tocca l’opportunità di decidere cosa fare? Ecco, questa è la situa, diciamo così, e sarebbe un bene tenerla presente, visti gli impegni che ci attendono. Ma, siccome il passato è il passato e sfortunatamente non lo possiamo modificare, facciamo pure che saremmo disposti a lasciarcelo alle spalle, a non parlarne più. Cosa che richiede uno sforzo considerevole, ma va bene, sforziamoci. Supponiamo però che il solito Renzi abbia ragione quando dice che se i referendum dovessero smentire il Governo, nel 2025 si andrebbe a elezioni anticipate. E supponiamo che il Paese ne uscisse con una maggioranza di segno diverso: che si fa a quel punto, si ricomincia a discutere di leggi elettorali astruse, di semipresidenzialismo alla catalana ma non con gli scampi, bensì senza scampo, o di autonomie à la carte? Possiamo chiedere, per favore, una moratoria su questa specie di frenesia che ha preso ogni Governo dall’inizio della Seconda Repubblica a oggi, possiamo finirla con le riforme di M (e non solo nel senso di Meloni)? Possiamo auspicare che i prossimi non siano più o meno uguali a quelli prima, e a quelli prima ancora? Che ambiente, accoglienza, diritti, democrazia non siano solo parole da spendere sui manifesti? Che non si facciano cose, mentre si governa, di cui ci si debba giustificare quando poi si va all’opposizione? Ecco, questo sì, che sarebbe un programma rivoluzionario.

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