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La musa di Andrea Pennacchi



Ho letto presto l’Odissea, alle medie. Perché è successa ’sta roba qua. Mio papà si ostinava a tenere aperto lo stand dei libri alla festa dell’Unità. Per i più giovani, è tipo ’na sagra; per gli altri, sì, so’ figlio di genitori comunisti.


E si ostinava a tenere questo stand che ovviamente non era tanto frequentato, la costicina andava di più come genere. E i tre libri che vendeva li comprava lui, generalmente.


Poi succede che piove – perché capitava spesso che piovesse alle feste dell’Unità – e si rovinano dei libri. Uno lo porta anche a casa: era un’Odissea, appunto, in prosa, solo che era inservibile, sapete, tutta bagnata che sembrava un malloppone di cartapesta tipo Art Attack, per intenderci.


Era fuori da ogni salvataggio possibile, ma mia mamma lo prende e dice: «Xe peca’». Lo stende, letteralmente lo mette a stendere, lo asciuga, addirittura alcune pagine le stira.


Lo salva, come un cucciolo trovato a bordo strada, e me lo regala. Io lo prendo con un certo sospetto, perché avrei preferito un cucciolo vero. Però comincio a leggerlo ed era interessante, era figo.


Cioè, una storia con donne bellissime, mostri terribili, era ’na roba come i libri fantasy che leggevo. Poi c’erano allevamenti de maiali, spacciatori de loto, nemici implacabili: era il mio quartiere alle medie. Per cui a ogni pagina dicevi: «Ma… sta parlando di me?»


E ti rendi conto di una roba fondamentale: l’Odissea non è un libro, l’Odissea non è una roba che leggi, non è neanche una roba che racconti perché hai fatto esperienza, perché al massimo hai fatto l’Erasmus, che cosa vuoi raccontare?


No, è una roba antica, profonda, che viene dalle viscere, da dentro. La puoi chiamare come vuoi: inconscio, dna, acidità. Omero la chiamava «Musa».


È una roba che ti muove, che ti commuove, che ti fa sentire nostalgia per cose che non hai mai vissuto, che ti mette in contatto coi tuoi antichi, coi tuoi antenati, che stanno al bar, seduti ai tavolini, fuori, nel campo di Asfodeli, e ti guardano come si guarda una partita in televisione, mentre tu fai il tuo ennesimo naufragio, la zattera che hai fabbricato si sfalda come un cracker nel latte e tu nuoti nel mare in tempesta della tua vita, il mare ti sbatte da una parte all’altra, ti attacchi a uno scoglio come un polpo, e il mare ti porta via di nuovo finché non arrivi davanti alla foce di un fiume e il fiume gentile si sposta per farti passare, e come un figlio vede il padre tornare dall’ospedale quando è stato male, così tu con sollievo metti piede finalmente a casa tua, di nuovo, e svieni sotto a un cespuglio.


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