Come scrivevo a proposito dei Mondiali, le squadre dei Paesi – soprattutto quelli più ricchi – sono sempre di più squadre-mondo.
Le squadre nazionali sono, insomma, internazionali. C’è qualcuno che dice che dipende dalla globalizzazione, e quindi il fenomeno va rifiutato tout court perché altera le nostre “identità” nazionali.
In verità dipende da tante cose, dalla nostra storia, da noi.
Dal colonialismo, come immediato precedente della globalizzazione (che peraltro con la globalizzazione prosegue e prende altre forme, anche quelle delle migrazioni).
Prima ancora dalla schiavitù e dalla deportazione, dall’invasione di interi continenti, dalla lotta, non quella olimpica, quella per la sopravvivenza.
Insomma, da come il genere umano è andato organizzandosi, nel bene e spesso nel male.
Da come il genere umano, in fondo, è.
Anche il nazionalismo è invenzione recente, e speriamo caduca. Ed è il nazionalismo che spesso manipola e strumentalizza le vittorie sportive per rivendicare chissà quale primazia a livello generale.
Vale la pena di ricordare che la vera corsa dell’umanità muove dal Corno d’Africa non solo per i 10.000 metri del fondo olimpico ma per milioni di chilometri e decine di migliaia di anni di chi ci ha preceduto.
Peraltro, lo spirito olimpico è precedente al nazionalismo, ed è, se si vuole, un suo antidoto. E la bandiera importa, ma importa soprattutto l’atleta, la prestazione, le emozioni che provoca nel pubblico che l’osserva.
E poi certo, ci sono la cultura, gli investimenti, le scuole, dove le atlete e gli atleti crescono, perché anche questo conta, come conta la possibilità di formarsi, anche sportivamente, e di raggiungere le condizioni economiche per poterlo fare. Piccoli dettagli decisivi – come nel caso di Roncadelle, cittadina satellite di Brescia, dove gli ori sono stati addirittura tre, in discipline molto diverse tra loro.
Dopo decenni di globalizzazione e secoli di colonialismo si sta dimostrando, anche nella formazione delle squadre nazionali, ciò che è ovvio: che la vera nazionalità è una sola, quella umana.
Guardate le italiane e gli italiani dell’atletica. I commentatori non ce la fanno a considerare gli atleti italiani come italiani. Al massimo, come ha scritto un noto direttore, sono integrati. Del resto, la politica non riesce a considerare italiani gli italiani da anni. Vedi alla voce ius soli, vedi alla voce cittadinanza – ma anche maturità e evoluzione. Però festeggiano eccome, se la bandiera è la nostra, senza curarsi di contraddizioni e paradossi.
Sì fermano alle apparenze e alla superficie, per cui sarebbe più italiana Nadia Battocletti – figlia di una campionessa marocchina – di Paola Egonu o di Fiona May e di sua figlia Larissa Iapichino, ma solo per il colore della pelle, altra cosa che dovremmo discutere senza fare troppo gli spiritosi perché si chiama razzismo e spesso si coniuga con una invincibile ignoranza, che occupa tutti i gradini del podio.
E a proposito di cose serie, anche il superamento della guerra e la sua abolizione, non solo la sua olimpica sospensione (che non c’è più, anzi), dovrebbero portarci a riflettere più in profondità.
E a considerare umani gli umani. Che sempre, come nelle storie di queste atlete e atleti, nascono da incontri casuali, da storie che vengono da lontano, come ha raccontato Giampaolo Coriani e come abbiamo imparato, forse, a comprendere, anche noi “italianissimi”, orgogliosi ma solo a volte e se qualcuno vince qualcosa della società di cui facciamo parte.
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