«La vita sociale dell’Italia aspira ad essere e deve essere sempre di più quella di una vera comunità composta da persone ciascuna diversa da ogni altra, tutte con eguale dignità, con talenti differenti, con differenti creatività»: lo ha detto ieri Mattarella, ed è interessante che abbia scelto proprio queste parole nella settimana caratterizzata, diciamo così, dalla fatidica pesca dell’Esselunga. Cosa c’entra la pesca, si chiederanno alcuni? C’entra in quanto ultimissimo - per ora - esempio di piccolezze divisive, quasi quotidiane, erroneamente discusse con un eccesso di gravitas, e come se ci riguardassero personalmente, mentre invece ci dicono qualcosa di più generale sulla nostra capacità di stare insieme in quanto società, e soprattutto di cambiarla per davvero e in meglio.
E così, mentre alcuni utilizzavano toni apocalittici per commentare lo spot di cui sopra, vedendoci dentro la destra, il conservatorismo, l’abuso, il dolore di tutti i bambini del mondo che hanno visto i genitori separarsi, giù giù fino alle piaghe d’Egitto al punto che uno meno coinvolto, leggendo, inevitabilmente era portato a pensare “ok, ma anche meno”, la canea spingeva a schierarsi nientemeno che la presidente del Consiglio che invece, bontà sua, l’aveva trovato “molto toccante”, in un tweet immediatamente memato fino a trasfigurarne completamente il significato, a sottolineare al profondità della questione. In questa diatriba che al confronto il concilio di Nicea sulla natura consustanziale del Figlio al Padre era stata una passeggiata di salute, vigliacco se si è presentato uno, uno solo a dire “bello, brutto, gente, è uno spot, chissenefrega, andiamo avanti”. Non perché la pubblicità non sia un’importante fattore di trasformazione della società e quindi del pensiero e bla bla bla - già si sentono galoppare gli esperti in comunicazione per sottolinearlo - ma per una cosa antica e ormai dimenticata che si chiama senso delle proporzioni, o se volete delle priorità, ovvero che non possiamo farci le guerre di religione su ogni folata di vento, altrimenti finisce che ci sgozziamo a vicenda, e soprattutto perdiamo di vista il quadro generale, oltre che l’obbiettivo, che non consiste solo nello sfogarsi su Insta.
Ed è questo, più che gli amari ricordi divorzisti, che le reazioni a quello spot trasmette: che noi, semplicemente, come società non esistiamo praticamente più. Che non ci piacciamo più, che non ci sopportiamo più, che non siamo più disposti a tollerarci, che il famoso patto che ci teneva insieme è carta straccia. La comoda distanza consentita dai social, ovviamente, aiuta molto il fomento: perché se sentiamo il pescivendolo dire una bestialità, ecco, magari siamo anche in grado di morderci la lingua, sorridere, pagare il conto e andarcene senza farne una tragedia. Dopotutto, quel giorno abbiamo davvero, davvero voglia di gamberoni, e al limite possiamo sempre andare da un altro pescivendolo la volta dopo, ma alla fine il punto è che non possiamo litigare con tutti quelli che incontriamo, un fatto che semplicemente la società interconessa si rifiuta di considerare. Perché via smartphone, francamente, chi se ne frega, siamo liberi di scatenarci, senza freni. E di interpretare ogni segno di disturbo, per quanto piccolo, come la fine della società occidentale. La quale, a forza di evocarla, a un certo punto poi si palesa davvero.
Oltre ai social, contribuisce il lento processo storico per il quale, dopo decenni, a volte secoli, a volte persino millenni, molti gruppi sociali che hanno da sempre fatto parte della società a patto che ne fossero sottomessi, hanno iniziato a far intendere chiaramente che non avrebbero tollerato oltre. Del resto, si tratta di un cambiamento a cui pure la destra non è immune, visto che oggi anche i fascisti, per non dire i nazisti, chiedono di rimettere fuori la testa. Cosa che risulta un pochino contraddittoria, in una democrazia, ma non c’è verso di spiegarglielo.
Non che nelle nostre belle democrazie fosse vietato, per dire, essere gay - oddio, a dire il vero in alcune sì -, semplicemente vigeva una sorta di bon ton che chiedeva loro di limitarsi alla sfera privatissima, sopportare in silenzio le discriminazioni, in sostanza non turbare il resto del mondo, quello “normale”, come lo chiama esplicitamente Vannacci nel suo libro. E ci poteva pure stare qualche macchia di colore scuro, a patto che chi aveva la sfortuna di nascere con quella pelle ringraziasse i bianchi per il privilegio di servire con un “zì buana” e si accontentasse di stare sotto al tavolo in attesa che cascasse qualche briciola. I guai sono cominciati quando hanno iniziato a provare a sedersi al tavolo come tutti gli altri, che poi è la ragione profonda per cui gli Usa (e presto anche noi) si stanno spaccando in mille pezzi. E poi anche le donne, che da tempo godono nominalmente di pari diritti, a patto che tengano gli occhi bassi, si facciano toccare il culo apprezzando il gesto goliardico, e per carità non chiedano stipendi uguali a quelli degli uomini. Per tutti loro e per tutti gli altri in simili condizioni, il succo era: non rompete le balle. Ecco quindi che, più si sono fatte evidenti le rivendicazioni di questi e molti altri pezzetti di umanità, più qualcuno ha iniziato a reagire, e da lì all’escalation è un attimo.
Chiaramente, si tratta di una battaglia epocale, che va combattuta fino alla fine, su questo meglio non essere ambigui. Solo che, a vederla declinata nella pesca di turno, una pesca a strascico in cui i pesci siamo noi, viene qualche dubbio che non si stia rapidamente spostando su un terreno molto, molto lontano da quello che dovrebbe essere l’obbiettivo finale.
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