L’uso politico e pubblico della storia e della memoria non è di certo una novità. La memoria ci aiuta a interpretare e a semplificare il presente attraverso concetti e schemi. Si tratta, però, di schemi che sono costruiti nel presente e che da esso dipendono: passato e presente sono due corpi in relazione tra loro secondo una sorta di legge di gravitazione universale, per cui l’uno attrae l’altro e viceversa. Il passato — potremmo dire — non è un oggetto che viene custodito in un solaio polveroso senza che nessuno lo tocchi, ma un oggetto che viene ricostruito e rimodellato ogni volta che viene maneggiato, ogni volta che ci occupiamo di lui. Di conseguenza, c’è poco da stupirsi quando gruppi, organizzazioni e singole persone impegnate nel raccogliere consenso politico offrono letture e interpretazioni della storia in aperta contrapposizione con gli eventi storici, ma funzionali alla creazione di miti, tradizioni, percorsi che, da un lato, legittimerebbero l’esistenza del gruppo e la sua azione nel presente e, dall’altro lato, definirebbero una sua missione salvifica per il futuro, nonché per il bene della propria comunità. Una lettura del passato arbitraria, utile alla definizione di una certa identità. Pensiamo al fascismo e alla sua autodichiarata continuità con l’impero romano. Non possiamo neppure essere stupiti per il fatto che qualsiasi gruppo coltivi la propria memoria e che lo faccia più o meno privatamente. È probabile che il figlio di un repubblichino, seduto a tavola all’ora di cena, racconti al proprio figlio le imprese del nonno esaltandole, omettendo alcuni dettagli, evitando di mettere a confronto la sua memoria famigliare con la storia. Lo stesso si può dire del figlio di un partigiano, e di tutto ciò, dicevamo, non c’è da stupirsi. C’è molto da stupirsi quando letture della storia non corrispondenti con la storia, ma coincidenti con le sole memorie private, sono propalate dalle più alte cariche dello Stato, ponendosi di fatto in contrapposizione con la storia del Paese che dovrebbero rappresentare. C’è molto da stupirsi quando la memoria coltivata da un determinato gruppo politico non si confronta nell’arena delle diverse e contrapposte memorie private, ma si sostituisce alla storia e alla memoria sociale di quel Paese. Quando assume dignità e valore istituzionale.
Potevamo aspettarci qualcosa di diverso? Probabilmente no, perché la fiamma contenuta nel simbolo di Fratelli d’Italia si trova dove si trova proprio per giocare questo ruolo, per creare quella continuità, per richiamare quell’identità e la sua missione salvifica. La fiamma, in questo senso, rappresenta “un inciampo” nel fluire del tempo, rinviando il suo osservatore alla tradizione che l’ha vista transitare nel simbolo di Alleanza nazionale e, prima, nel simbolo del Movimento sociale italiano, il partito erede della Repubblica sociale. L’attuale premier, commentando il risultato delle ultime elezioni politiche, richiamò esplicitamente quella tradizione dedicando la vittoria «alle persone che non ci sono più e che meritavano di vivere questa nottata». E aggiungendo che quella sarebbe stata una notte «di orgoglio, di riscatto, lacrime, abbracci, sogni e ricordi».
Eppure, quel collegamento non era stato spezzato dalla condanna del fascismo quale “male assoluto” da parte di Gianfranco Fini, allora segretario di Alleanza nazionale? Pierluigi Battista, allora inviato de La Stampa, ha di recente raccontato la sua versione dei fatti. In quel giorno del novembre 2003, Gianfranco Fini, in visita al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, non avrebbe pronunciato questa frase: «il suo ragionamento fu un po’ più contorto e problematico» spiega Battista «e infatti negli articoli di allora non si troverà mai quella dichiarazione tra virgolette». (Pierluigi Battista, Storia di una fake news politica mai smentita: Gianfranco Fini e una frase mai detta, huffingtonpost.it, 29 giugno 2021). continua a leggere su Ossigeno n. 12 - No Future
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