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  • Immagine del redattoreGiampaolo Coriani

Le assegnazioni miserabili


Un amico scrive, cito quasi testualmente, che un provvedimento (di assegnazione di un porto “sicuro” ad una ONG) che «….costringe i migranti a giornate di sofferenza supplementare dirottandoli sui porti di città governate dal centro sinistra ridefinisce direi con grande chiarezza e precisione il concetto di “miserabile”».

Difficile non essere d’accordo, ma oltre alla semantica c’è a monte anche un problema, ancora una volta, di illegittimità giuridica.

Il nuovo decreto sicurezza del governo, dedicato ai salvataggi in mare delle ONG, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, è illegittimo già nelle intenzioni, che sono quelle di “declinare” l’applicazione di norme di grado superiore nella scala gerarchica del diritto, i trattati internazionali, con norme di grado inferiore, il decreto legge, cioè la legge ordinaria.

Ed è opinione consolidata, nonostante la propaganda a reti unificate di portavoce governativi, i quali, tertium non datur, possono essere solo ignoranti (del diritto) o in mala fede, che le disposizioni illegittime possano essere disapplicate, come annunciato dalle ONG.

Ciò vale certamente, ad esempio, per il divieto di salvataggi multipli, poiché l’obbligo di salvare vite prevale sulle esigenze elettorali dei partiti di governo, o sulla richiesta di asilo da compilare a bordo, vietata dai trattati.

Tuttavia questa disapplicazione porterà all’emissione di sanzioni amministrative e al “fermo” delle navi, per il tempo necessario all’esito dei ricorsi sui provvedimenti illegittimi.

Fermo che, inevitabilmente, costerà vite umane.


In questo quadro, l’obbligo di dare immediata notizia del salvataggio e di dirigersi senza indugio verso il POS (place of safety, o porto sicuro) indicato dalle autorità nasce da una interpretazione forzata dei trattati internazionali.

Infatti, come dovrebbe essere noto, ma non smetterò di ripeterlo, per “porto sicuro” si intende il luogo in cui si considerano terminate le operazioni di salvataggio, dove i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio per la loro vita e possono accedere ad alcuni beni e servizi fondamentali (cibo e acqua, rifugio e ripario, cure mediche), nonché, nel caso in cui si tratti di migranti, a tutte le procedure per poter ottenere un passaggio verso la destinazione finale o la più vicina, ad esempio potendo presentare richiesta di asilo.

Tuttavia le convenzioni non dicono esplicitamente che debba essere il porto più vicino al luogo del salvataggio, anche se dovrebbe essere implicito, trattandosi, appunto, di un salvataggio e non di una crociera.

Su questa carenza di specificità si insinua la norma, ma soprattutto intervengono le assegnazioni, che non solo sono molto distanti dal luogo di salvataggio (dopo Ravenna, Ancona, 4 giorni di navigazione) ma hanno la caratteristica (non casuale ma voluta e dichiarata da esponenti della maggioranza prima che venisse promulgato il decreto) di coincidere con città governate dal centrosinistra.

Un comportamento degno della peggior destra, come quella rappresentata dai governatori trumpiani che, ad esempio, hanno inviato pullman di migranti dal Texas facendoli “scaricare” davanti alla casa della vice presidente Kamala Harris.


La finalità è doppia.

Compiacere il proprio elettorato e in particolare quella torma di esseri disumani che commentano entusiasti sui social, e nello stesso tempo tenere lontane le navi dalle zone dei naufragi per il maggior tempo possibile, senza preoccuparsi di chi su quelle navi è trasportato e di chi, intanto, annega.

Ma il problema giuridico c’è.

I trattati che siamo tenuti ad osservare, infatti, anzitutto impongono che l’assegnazione del porto sia compatibile con la “minima deviazione” rispetto alla rotta originaria.

Su questo, va detto, la discussione è aperta perché le navi delle ONG sono in loco proprio per salvare vite e il governo deduce che non hanno una rotta prestabilita dalla quale deviare.

Ma dove non può esserci dubbio, invece, è sull’obbligo di “minimize the time rescued people remain aboard the assisting ship”, vale a dire contenere al minimo indispensabile il tempo che le persone soccorse debbano trascorrere sulla nave che le ha salvate.

Questo principio è oggettivamente violato dalle assegnazioni in porti come Ancona e Ravenna, a maggior ragione se l’intenzione, sfacciatamente dichiarata, è quella, tutta politica, di mettere in difficoltà amministrazioni di centro sinistra per l’assistenza a terra dei naufraghi.


Ma come far valere questa illegittimità?

Nell’immediato, le ONG si devono adeguare perché la priorità è lo sbarco con la successiva assistenza ai naufraghi e tentare l’approdo in altri porti potrebbe di fatto allungare i tempi, quindi si sono limitate a chiedere un’assegnazione diversa e più vicina, rifiutata dal governo.

Non ci sono neppure i tempi per un ricorso immediato che sposti la destinazione.

Però una strada forse potrebbe esserci.

Le ONG potrebbero impugnare, in quanto provvedimento amministrativo, l’assegnazione e il successivo diniego di modifica della stessa, in sede amministrativa.

All’esito dei procedimenti giurisdizionali, se anche fossero negativi, avrebbero titolo per proporre ricorso avanti la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) chiedendo la condanna dell’Italia per la violazione, palese, dei diritti umani dei naufraghi.

Una strada lunga e costosa che, però, ne sono sicuro, troverebbe molte persone comuni, associazioni e partiti pronti a finanziarla.

Quanto alla definizione iniziale, quella del mio amico, di provvedimenti di questa natura, e forse miserabili è riduttivo, non serve un tribunale.

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