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Le regole che si danno i giornalisti, e che loro per primi non rispettano

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Non ci dovrebbe essere molto da commentare sul caso mediatico che ha travolto la ristoratrice lodigiana Giovanna Pedretti e la sua tragica morte, di cose da dire ce ne sono invece molte su come nascono e vengono gestite le notizie. Come tutti gli iscritti all’Ordine dei Giornalisti sanno bene, ogni anno arriva il momento dei fatidici crediti formativi: l’Ordine obbliga i propri tesserati a frequentare corsi d’aggiornamento e ad accumulare un certo numero di punti, pena il rischio sospensione. L’offerta è ampia, molti gli argomenti e anche i livelli di impegno richiesti: uno di quei corsi riguarda appunto le cosiddette fake news ed è tenuto da David Puente, vicedirettore e addetto al fact-checking di Open. Al di là di qualche tecnicismo, il corso spiega in modo molto semplice quali sono gli strumenti, quasi sempre gratuiti e facili da usare, necessari alla verifica di una notizia, un passaggio fondamentale da che esiste questo mestiere e ancora più necessario dall’avvento del digitale, per tacere dei social e dei recenti sviluppi legati all’intelligenza artificiale generativa.


Mentre un utente comune vede un post sui social e, se lo apprezza, lo condivide senza pensarci più di tanto (anche se, in realtà, dopo anni di utilizzo di questi mezzi tutti dovremmo aver imparato ad essere un pochino più accorti, se non sospettosi, verso ciò che leggiamo), il giornalista non può limitarsi a questo. Non può e basta, altrimenti decade la sua funzione, e non si capisce perché debba essere pagato per fare quello che qualsiasi signor Rossi può fare per conto proprio. La notizia, per essere tale, deve rispondere a due criteri, e il primo di questi è la verificabilità: che non vuol dire che deve essere vera, vuol dire che la si deve poter verificare. Se non è possibile verificarla, magari è comunque vera, ma non andrebbe pubblicata. Il secondo criterio, invece, è la notiziabilità, ovvero: quella notizia ha un valore? E cosa si intende per valore? In un mondo perfetto, vorrebbe dire che comunica un’informazione, nel mondo reale invece la sua valutazione ha molto a che fare con l’interesse: farà vendere copie, o porterà molti click? Se la notiziabilità, ovvero la prospettiva che la notizia generi un profitto, rimpiazza la verificabilità, abbiamo un problema. E ce l’abbiamo, perché la quantità di news su cui nessuno si pone nemmeno lontanamente il problema della verificabilità è impressionante.


Il che ci porta a un ulteriore problema, che è quello della deontologia professionale: che senso ha che l’Ordine dei Giornalisti imponga di frequentare corsi in cui, tra le altre cose, si spiega come verificare una fonte, se poi nella prassi non succede, o come nel caso in esame, succede solo dopo? Perché dobbiamo discutere delle conseguenze di un fact checking (che è stato tardivo), quando in realtà la notizia non sarebbe mai e poi mai dovuta uscire in primo luogo?

Ma potremmo pure cambiare argomento, citando ad esempio un altro corso importante tra quelli proposti dall’Ordine, quello sui cambiamenti climatici che ha tra i suoi relatori Luca Mercalli. Mercalli è tra i più prestigiosi divulgatori di questo Paese, le sue credenziali accademiche sono impeccabili e, malgrado il corso sia leggermente datato, le cose che dice sono assolutamente perfette, anzi persino profetiche, e in generale tutto il corso raccomanda un approccio rigoroso a chi tratta le notizie sulle crisi ambientale. Eppure, con cadenza quasi quotidiana, la metà circa dei quotidiani nazionali pubblica tesi negazioniste, dando voce a personaggi non qualificati, o screditati dalla comunità scientifica, e alle loro teorie bislacche, oltre che molto interessate. A qualcuno frega qualcosa? E all’Ordine dei Giornalisti? Certo, va tenuta presente la libertà di opinione, ci mancherebbe. Ma perché la categoria finge di darsi delle regole, se poi non interviene per farle rispettare? Non è un dibattito accademico, tutt’altro, e le conseguenze, come vediamo, sono tragiche.

Ossigeno

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