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Sono 9.500 le quote di ingresso di stranieri non comunitari previste per il 2023 dal Decreto Flussi nell’ambito dell’assistenza familiare e sociosanitaria; 76.711 il numero di istanze presentate durante il click-day del 4 dicembre scorso; 4 i minuti impiegati per esaurire i posti disponibili.
Sono questi i numeri che descrivono la situazione attuale del lavoro domestico retribuito in Italia, sorretto principalmente dalle spalle invisibili di lavoratrici e lavoratori immigrati.
Dal punto di vista del welfare, il nostro Paese è caratterizzato da un regime ancora fortemente familista: è sulle famiglie, o più precisamente sulle donne (prima come compagne, mogli e madri, poi come figlie di genitori anziani), che gravano principalmente i compiti di cura ed assistenza. E se, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si è assistito ad una progressiva crescita della partecipazione femminile al lavoro retribuito, a questa non sono corrisposti né un adeguato sviluppo dei servizi pubblici, né una ridistribuzione dei carichi del lavoro domestico all’interno delle famiglie stesse. Con la conseguenza che le donne sono ancora, di fatto, socialmente tenute a farsi carico di molti servizi di cura, ma ne alleggeriscono il peso ricorrendo al lavoro retribuito di altre persone – tipicamente donne anch’esse.
Queste lavoratrici sempre più frequentemente sono immigrate, spesso prive di documenti ed in condizioni di fragilità, che vedono nel lavoro domestico e di assistenza familiare, benché faticoso fisicamente e psicologicamente, non solo una fonte seppur modesta di guadagno, quanto soprattutto una sostanziale protezione da possibili controlli delle autorità e, di fatto, il primo passo di un percorso di insediamento che ripone le sue speranze nella possibilità di una futura regolarizzazione.
Questo perché, da oltre 40 anni di politiche migratorie fallimentari, i principali strumenti nostrani di gestione dei flussi di popolazione in entrata sono ancora le sanatorie, ossia le legittimazioni a posteriori di persone arrivate illegalmente nel territorio italiano (come quella del 2020, che, più di tre anni dopo, conta ancora migliaia di pratiche inevase e, quindi, migliaia di persone straniere in attesa di ricevere una risposta), e i Decreti Flussi, con cui si stabiliscono quantitativi massimi di stranieri extra UE ammessi nel Paese attraverso canali di ingresso regolari.
L’ultimo Decreto Flussi, in particolare, destina al comparto dell’assistenza familiare e sociosanitaria 28.500 quote in tre anni (9.500 per il 2023 ed altrettante per i due anni successivi): si tratta di numeri molto piccoli per un settore che impiega oltre un milione di lavoratrici e lavoratori regolari ed altrettanti irregolari, e dove il meccanismo dell’assunzione “a chiamata” di personale dall’estero, che giungerebbe nel nostro Paese appositamente per svolgere le mansioni di cui vi è bisogno, si traduce di fatto nella richiesta da parte dei datori di lavoro di normalizzare l’impiego di stranieri irregolari già presenti sul territorio, tipicamente già conosciuti e che già svolgono quello stesso lavoro nella più completa invisibilità.
Risulta evidente come, parallelamente al sistema di welfare ufficiale, negli anni se ne sia sviluppato un altro, un welfare informale ed invisibile, dove l’assistenza ai bambini, agli anziani e alle persone fragili o non autosufficienti è gestita direttamente dalle famiglie, spesso affidandosi alle cure di lavoratrici e lavoratori stranieri irregolari. Al di fuori del controllo della pubblica autorità, ma da questa tollerata e, addirittura, sovvenzionata, in una forma di incoerenza manifesta dove il lavoro irregolare straniero – sempre pubblicamente osteggiato – viene trattato con indulgenza solo quando serve a mascherare le carenze dello Stato sociale. Quell’illegalità per necessità (la necessità delle famiglie autoctone, s’intende) che viene guardata con clemenza.
La strategia silenziosa delle nostre istituzioni, quindi, sembra essere quella di mantenere un atteggiamento di pragmatico utilitarismo, dove all’inflessibilità di facciata segue l’accettazione a posteriori dell’autoregolamentazione dal basso che la società spontaneamente ha costruito. Una società che però non è esente da queste stesse contraddizioni, che si affida alla manodopera irregolare e poi vota per partiti che propongono una legislazione più severa sull’immigrazione non autorizzata, in un nuova forma di razzismo selettivo dove è possibile legittimare il singolo lavoratore straniero, con un nome ed un volto conosciuti e un posto ben preciso all’interno dell’organizzazione domestica, e continuare a deplorare la restante massa indistinta e minacciosa, destinata ad annegare (talvolta non solo metaforicamente) in una collettività anonima.
Non tutti gli immigrati irregolari sono uguali, quindi. Alcuni sono meno uguali di altri.
L’apporto essenziale di lavoratrici e lavoratori stranieri al settore della cura è particolarmente esemplificativo di come già ora l’immigrazione sia presente e necessaria e di come lo sarà sempre di più in un Paese che sta inesorabilmente invecchiando, sia come forza lavoro – il cui contributo deve essere finalmente riconosciuto, rivalutato e incentivato –, sia per contrastare l’inverno demografico che imperversa.
Ha ragione il Presidente Mattarella quando dice che servono “ingressi regolari, sostenibili, ma in numero adeguatamente ampio”, sicuramente più ampio di quanto previsto oggi dal Decreto Flussi.
Servono studenti, lavoratori, famiglie. Dobbiamo attrarli in Italia, riaprendo i canali di immigrazione regolare e limitando le morti in mare, che sono una sconfitta sociale ed umanitaria, e dobbiamo convincerli a restare mediante politiche attive di integrazione e sviluppo delle competenze, di dignità.
Offrendo a loro, e così a noi stessi, la prospettiva di un futuro migliore.
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