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Macelleria costituzionale



La proposta di riforma costituzionale licenziata dal Consiglio dei ministri mira a modificare appena quattro articoli della Costituzione, e questo potrebbe far pensare che si tratti di una proposta di modifica “chirurgica”. Essa concerne: la cancellazione della possibilità per il Presidente della Repubblica di nominare senatori a vita cittadini che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti; la cancellazione della possibilità che lo stesso Presidente della Repubblica proceda allo scioglimento di una sola delle due Camere; l’introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri; la costituzionalizzazione (di una parte) del sistema elettorale; la disciplina della fiducia iniziale e della sfiducia (successiva) del presidente del Consiglio eletto.

 

La proposta prevede che il presidente del Consiglio sia eletto direttamente dal corpo elettorale, unitamente al rinnovo delle due Camere: si vota con un’unica scheda e alle liste e ai candidati collegati al presidente eletto è attribuito un premio, assegnato su base nazionale, volto a garantire il 55% dei seggi nelle due Camere. A quel punto, «il presidente della Repubblica conferisce al presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del presidente del Consiglio, i ministri». Entro dieci giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia; se non l’ottiene, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al presidente eletto; se questi non dovesse ottenere ancora una volta la fiducia, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere. Qualora il presidente del Consiglio si dimetta prima della fine della legislatura, «il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto». Qualora, ancora, «il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».

Si impongono alcune brevi osservazioni.

 

La proposta di riforma non è affatto “chirurgica”: essa stravolge l’impianto dei rapporti tra gli organi costituzionali e incide, in particolar modo, sui poteri del Presidente della Repubblica, giacché questi non può sciogliere le Camere se non in due casi: 1) qualora il presidente eletto non ottenga la fiducia iniziale; 2) qualora il presidente eletto rassegni volontariamente le dimissioni o sia costretto a rassegnarle a seguito di un voto di sfiducia da parte di entrambe le Camere e non sia possibile conferire nuovamente l’incarico al presidente dimissionario o ad altro parlamentare facente parte della maggioranza. Occorrerebbe chiedersi, peraltro, a cosa serva continuare a sentire i presidenti delle due Camere – come vuole ancora l’art. 88 della Costituzione – prima di procedere allo scioglimento; e soprattutto cosa fare nel caso in cui sopraggiungesse la morte del presidente eletto, visto che nella proposta di riforma si discorre unicamente di «presidente del Consiglio dimissionario». Ciò che con tali modifiche si vorrebbe evitare, in verità, sono i cosiddetti “ribaltoni” e anche che il Presidente della Repubblica possa affidare l’incarico a un “tecnico”, come è accaduto, ad esempio, con Monti o Draghi. Il che, però, implica che in caso di crisi, come è stato appunto con gli esempi appena citati, gli spazi di manovra del Presidente sarebbero pressoché nulli. Non proprio un dettaglio.

 

Se si introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio non ha molto senso prevedere che il presidente eletto debba presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia; delle due l’una: o la legittimazione è popolare o la legittimazione è parlamentare. Non così, invece, per la sfiducia successiva, che potrebbe giustificarsi per ragioni diverse (e sopraggiunte). Inoltre, se la modifica costituzionale si giustifica allo scopo di evitare i cosiddetti “ribaltoni”, come giustificare il fatto che in caso di cessazione della carica del presidente eletto non si torni alle urne, ma si proceda al conferimento dell’incarico a un parlamentare eletto in qualità di parlamentare e non già di presidente del Consiglio? Anche questo è un ribaltone: tutto interno alla maggioranza, si intende; come lo sarebbe, seppur in termini diversi, l’ipotesi di un nuovo conferimento dell’incarico al presidente dimissionario: ipotesi realizzabile qualora una delle forze politiche facenti parte della maggioranza smettesse di appoggiare l’Esecutivo in carica e nella maggioranza subentrassero una o più forze politiche diverse da quelle che lo avevano inizialmente sostenuto. Infine, neppure ha senso stabilire che la fiducia sia accordata «a un altro parlamentare per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del presidente eletto ha (già) ottenuto la fiducia»: se l’ha già ottenuta ed è stato poi sfiduciato, il riferimento all’indirizzo politico e agli impegni programmatici pregressi appare del tutto illogico, giacché colui al quale è affidato l’incarico di formare il nuovo Governo dovrà presentarsi alle Camere con un nuovo programma e non già con quello di un presidente ormai sfiduciato.


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