L’aereo di Prigožin esplode in volo nei pressi di Mosca. L’esercito ucraino apre una breccia nelle prime linee russe nella regione di Zaporižžja. Zelensky ordina il licenziamento in massa dei funzionari regionali incaricati del reclutamento, pare si facessero corrompere da chi voleva disertare fuggendo all’estero: 4,500 euro per passare il confine verso la Moldavia.
Nel consueto guazzabuglio di notizie arrivate negli ultimi giorni ritrovo la ragione che un anno fa mi ha spinto a mettermi in viaggio per la Moldavia, con l’intento di muovermi lungo i confini della guerra, di osservarla dai suoi margini. La ricerca di una giusta distanza: non dentro il conflitto, nella violenza, nell’odio, sotto la cappa del nazionalismo; ma neanche troppo distante, dove i discorsi sugli equilibri geopolitici globali non riescono più a scorgere la vita delle persone, a sentire le loro storie.
È così che ho incontrato Dimitrij e Oksana, vicini di casa nel villaggio ormai spopolato di Mykolaivka-Novorosiis’ka, in Ucraina. Sembra che in paese siano rimasti solo loro, ma per ragioni ben diverse: lui spera nell’arrivo dei russi, lei nel ritorno dei figli dal fronte, dove combattono nelle prime linee dell’esercito ucraino. E poi Ivan, di professione pompiere, che nel piccolo posto di confine di Palanca, nella Moldavia meridionale, da un giorno all’altro si è ritrovato a gestire il grande campo profughi per le persone in fuga dalla regione di Odessa: con l’inglese l’aiuta suo figlio Daniel, di dodici anni, che da grande sogna di lavorare come interprete per le Nazioni Unite. E ancora: Natalia che, insieme ai giovani di Moldova4Peace, gestisce a Chişinău un centro di aggregazione dove le famiglie ucraine e quelle moldave possono trascorre il tempo insieme: “Per me parlare di pace significa molto più che dire che non c’è la guerra. La pace per me corrisponde a una condizione di armonia della società, la pace è uguaglianza e il diritto di tutte e di tutti di accedere ai propri diritti”. Questo mi ha detto Natalia, uno dei tanti pensieri sulla pace che ho appuntano nel mio quaderno di viaggio.
Sì, perché alla fine mi sono reso conto che quello che voleva essere un viaggio per cercare di capire la guerra, alla fine è stato soprattutto un’occasione per riflettere sulla pace. Tante delle persone che ho incontrato mi hanno parlato del loro desiderio di pace, anche in luoghi dove è difficile immaginarla. Come ad esempio a Tiraspol, la capitale della Transnistria, regione secessionista nell’est della Moldavia che, oltre le rive del fiume Dnestr, dal momento della caduta dell’Unione Sovietica è di fatto un territorio indipendente. Qui, tra statue di Lenin, Case dei Soviet e distaccamenti dell’esercito della Federazione Russa, un vecchio sanatorio sovietico è stato trasformato in centro di accoglienza per migranti ucraini. Tra di loro, anche Kazimir e Raisa, i nonni della piccola Vera, che tirano avanti come possono e ogni giorno stramaledicono questa dannata guerra. A loro, di chi vinca e chi perda non interessa nulla. L’unica cosa che vogliono è che smettano di cadere le bombe, che torni la pace e che insieme a lei anche loro possano tornare finalmente a casa.
E come costruirla, dunque, questa pace così necessaria? Prima di tutto, forse, occorre re-imparare a immaginarla. Un’impresa difficile, non c’è dubbio, e per la quale servono necessariamente buoni compagni di viaggio con cui discutere. Io sono stato accompagnato da Victor Hugo e da Jurij Gagarin, dagli antropologi David Graeber, Fredrik Barth, Arjun Appadurai e Shahram Khosravi (e altri ancora, ma dovete scusarmi, sono antropologo anch’io e tendo a fare preferenze!) e dal sociologo moldavo Vitalie Sprînceană, da cui ho appreso come possa essere pensata una “neutralità attiva”: dunque, non una neutralità intesa come indifferenza o ignavia di fronte alla guerra, ma come impegno attivo a favore della pace. Scrive Sprînceană : “In questa guerra, come nelle altre, la propaganda bellica è riuscita a snaturare persino il significato di parole come ‘coraggio’. Se è un atto di coraggio nascondersi con un lanciarazzi dietro un muro per colpire un carro armato, sicuramente è un gesto di coraggio infinitamente più grande uscire con fiori, libri, argomentazioni e idee e frapporsi tra quello con il lanciarazzi e quello con il carro armato e convincerli che hanno bisogno di parlare, negoziare le loro divergenze, riconciliarsi e cercare modi per non uccidersi”.
C’è tutto questo in “MIR. Dialoghi sulla pace al confine della guerra in Ucraina”, che People pubblica a un anno esatto dal momento del viaggio che l’ha ispirato e in un momento in cui mi pare sempre più necessario svincolarsi dall’eterno presente della cronaca bellica, e rivolgere tutta la nostra attenzione a pensare il futuro. Che futuro riusciamo a intravedere per l’Ucraina, per la Russia, per la Moldavia, per l’Italia? La guerra non insegna niente, mai. Tuttavia, la vicenda dei milioni di migranti ucraini che in questi mesi si sono stabiliti in Europa qualcosa dovrebbe insegnarcela, eccome: ad esempio che se riconosciamo a chi fugge da una situazione di pericolo una protezione umanitaria che garantisca la libera circolazione tra i paesi europei, che consenta di raggiungere i propri amici parenti senza venire bloccati a ogni confine, e se costruiamo una rappresentazione pubblica e mediatica della migrazione non all’insegna dell’ansia e della paura, ma della comprensione e dell’empatia… beh, il “problema immigrazione” svanisce. È esattamente quanto accaduto con i migranti ucraini in questi mesi di guerra. Perché non può accadere allora anche con chi fugge da guerre e povertà in Africa e in Asia cercando di raggiungere l’Europa? Perché le nostre politiche migratorie continuano a essere così apertamente razziste?
Anche a queste domande la guerra in Ucraina ci costringe a trovare una risposta, nel tentativo di comprendere insieme in quale Mondo vogliamo vivere quando finalmente il fumo delle esplosioni si diraderà.
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