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Mentre gli esiti del voto in New Hampshire sanciscono un’altra vittoria meno schiacciante ma comunque molto larga di Trump, e mentre si vocifera che la sua unica sfidante rimasta, Nikki Haley, nonostante le dichiarazioni secondo cui “la battaglia è ancora lunga” sarebbe pronta a ritirarsi se i sondaggi dovessero darla perdente anche nella sua South Carolina, vorrei ci soffermassimo un momento proprio su di lei, sulla sfidante di Trump.
La parabola politica dell’ex ambasciatrice all’Onu ed ex governatrice della South Carolina è, infatti, emblematica di cosa si intende quando scriviamo, come abbiamo fatto molte volte su questa rivista, che i cosiddetti “repubblicani moderati” cui spesso fa riferimento la stampa italiana nel raccontare gli USA, di fatto non esistono più.
Avrete quasi certamente sentito parlare della cosiddetta “finestra di Overton”, cioè lo schema sociologico secondo cui un’idea può evolvere - nella percezione da parte dell’opinione pubblica - da “inconcepibile” a “istituzionalizzata”, passando per diversi gradi di “presentabilità” (estrema ->accettabile-> ragionevole->popolare).
Ciò cui stiamo assistendo da diversi anni a questa parte non solo negli USA ma in tutto l’occidente (e per la verità anche in molte altre parti del mondo) è il cosiddetto “spostamento” a destra di questa finestra. In altre parole l’imporsi sulla scena di figure politiche di estrema destra sta attirando verso quell’estremo la percezione dell’opinione pubblica di ciò che è se non istituzionale, per lo meno accettabile, trascinando di conseguenza tutta la politica verso quell’estremo, ovviamente in diverse gradazioni.
Per questo, ad oggi, fa un po’ ridere sentir parlare di “repubblicani moderati”, perché anche i pochi che per convinzioni e storia personale lo sarebbero davvero, sono di fatto costretti ad assumere posizioni che solo una ventina d’anni fa sarebbero state considerate inconcepibili, pur di restare popolari presso il loro elettorato.
Prendiamo l’esempio proprio di Nikki Haley. Ha fatto un discreto scalpore la sua dichiarazione di qualche giorno fa, in risposta a una domanda sul razzismo, quando ha affermato che «l’America non è mai stato un paese razzista».
Lasciamo perdere la follia di questa affermazione di per sé stessa, esaminiamola solo alla luce dell’esperienza personale di Nikki Haley.
L’ex governatrice è Nimrata Randhawa, perché è la figlia di un professore e di un’avvocata migrati dall’India prima al Canada e poi agli Stati Uniti, e in particolare al South Carolina. È lei stessa, nella sua biografia Can’t is not an option, a raccontare come i suoi genitori abbiano sofferto discriminazioni di ogni tipo, al loro arrivo negli USA: suo padre fu obbligato a insegnare in un’università “per neri”, perché all’epoca in quello stato erano ancora segregate, nessuno volle affidare una casa alla coppia di rispettabili professionisti, perché avevano la pelle marrone, e dovettero quindi comprare casa, ma con il divieto di tenervi alcolici e di far entrare “persone di colore”.
Quando voler candidare la giovane Nikki al concorso di bellezza della sua città natale, Bamberg, venne squalificata perché anche il concorso in questione era rigorosamente diviso tra ragazze bianche e nere e lei non era considerata né l’una né l’altra, quindi incandidabile. Sempre nella sua biografia, la Haley racconta di quando il padre, che come tutti gli osservanti della religione Sikh portava il turbante, fu arrestato mentre era al mercato perché aveva “spaventato” i proprietari del chiosco della frutta. E stiamo parlando dell’America degli anni ’60. Ma se vogliamo parlare di quella di oggi, i suoi contendenti del suo stesso partito usano sempre - sarà un caso? - il suo nome per esteso e il cognome da nubile, quando l’attaccano, perché non sarà un paese razzista ma a molti evidentemente Nimrata Randhawa suona peggio di Nikki Haley - peraltro lei stessa non lo usa mai.
Certo, lei si spiega dicendo che intendeva dire che negli USA chiunque può farcela indipendentemente dalle proprie caratteristiche razziali, sessuali o religiose, e lei ritiene di esserne la prova, ma la verità è che da un po’ di anni a questa parte nella destra USA l’argomento del razzismo è diventato un tabù assoluto, e la negazione del razzismo sistemico è diventato una sorta di rito di passaggio cui ogni aspirante candidato non bianco deve sottoporsi per poter essere accettato dalla base repubblicana. Al punto da arrivare a sentire una dichiarazione del genere da quella che è considerata la candidata moderata, del partito che - come amano sempre ricordare - fu di Abraham Lincoln.
E la stessa cosa di può dire di qualsiasi altra questione di primo piano negli Stati Uniti: immigrazione, aborto, diritti dei lavoratori, cambiamento climatico, politica estera. Scegliete uno a caso di questi argomenti e le posizioni che oggi sono considerata appannaggio dei centristi un tempo erano gli aspetti più retrivi dell’agenda di un presidente come Bush o di un candidato come McCain che all’epoca definivamo in tanti modi, ma non certo moderati.
Sarà un caso, ma sono peraltro entrambi tra i bersagli preferiti di Trump, al punto che nel tempo in molti li hanno rivalutati un po’ come da noi si è fatto con Berlusconi, un tempo considerato - non a torto - una sciagura ai limiti dell’eversione, ma che in confronto allo scivolamento a destra di Salvini e Meloni oggi fa (quasi) tenerezza.
Ma, appunto, non è che ci eravamo sbagliati e Berlusconi era buono, è solo che questi sono - scusate la brutalità - fascisti.
Ecco, quando vi parlano dei repubblicani moderati, ricordatevi che è di questo che parliamo.
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