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Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Non si può più dire niente (*)



Ma non (*) nel senso “woke” dell’espressione: nel senso che l’Italia ha un grosso problema con la libertà d’informazione e di parola. E non da oggi: ma col governo di destra la situazione è peggiorata.

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Serena Bortone non sarà in tv, nella prossima stagione Rai: aveva chiuso il proprio programma con una sorta di addio (“Buon vento”), e alla presentazione dei palinsesti, fatta come sempre con qualche mese di anticipo per illustrare al pubblico (ma soprattutto agli inserzionisti) i programmi dei mesi più prestigiosi e commercialmente redditizi – quelli del cosiddetto “periodo di garanzia”, che va da settembre a Natale, per poi riprendere da gennaio fino a giugno –, il suo nome non c’era. Eppure, Bortone è stata una delle grandi protagoniste della stagione appena conclusa, facendo buoni ascolti e contenuti decisamente virali, solitamente indice di un certo valore aggiunto. E forse il problema sta proprio qui. Chissà se, nelle riunioni preparatorie delle singole puntate di Chesarà…, la giornalista e conduttrice aveva avuto consapevolezza delle reazioni che avrebbe suscitato. E se abbia insistito proprio in virtù delle stesse. “Sarà in radio”, hanno spiegato i vertici Rai quando è stato chiesto conto della sua assenza, che però non è proprio la stessa cosa, ma tant’è: “il carrozzone va avanti da sé”, come cantava Renato Zero, e alla fine ha qualcuno di più importante del pubblico e degli inserzionisti a cui rispondere, ovvero il Governo.

Intendiamoci, niente di tutto questo suona nuovo all’italiano medio: questo è il Paese del famoso “editto bulgaro”, quando proprio dalla Bulgaria il Berlusconi premier ebbe a lamentarsi della presenza nella tv pubblica di Biagi, Luttazzi e Santoro, che poi vennero puntualmente allontanati. Curiosamente, Santoro aveva concluso appena un paio di anni prima, nel 1999, la propria esperienza a Mediaset con Moby Dick. Biagi non ci era mai passato, alla concorrenza, Luttazzi invece sì: prima a Mai dire Gol (come tutti o quasi i comici italiani), e poi con Barracuda, un talk che era in fondo la versione precedente di quel Satyricon che poi gli costò la carriera nell’azienda pubblica. Curiosamente, in quegli anni, quando qualcuno chiedeva conto a Fedele Confalonieri del pluralismo in Mediaset, lui rispondeva sempre “be’, ma ci sono i Gialappi”, e se si farebbe certamente un’enorme fatica a definire Berlusconi un editore illuminato si può constatare che nella sua lunga traiettoria tra televisione e politica per lo meno ci sono state fasi differenti. Si potrebbe concludere che, per assurdo, se Giorgia Meloni fosse un tycoon, forse la presa sulla Rai, sua e dei suoi, e il suo costante incarognimento nei confronti del pensiero dissenziente sarebbero minori. 


Quindi, per ricapitolare: l’Italia ha un problema con la libertà d’informazione e di parola? Sì, e non da oggi, evidentemente. Ma la situazione sta conoscendo nuove e preoccupanti evoluzioni. Manca forse il pluralismo? Ovviamente no: il digitale terrestre pullula di canali, si può guardare la tv tutti i giorni, tutto il giorno, senza mai doversi sorbire qualche telegiornale irregimentato. Sempre che se ne trovino di altri, non così abbondanti, a essere sinceri: c’è SkyTg24, che tenta l’approccio neutro all’americana, in un senso che ormai non usa più nemmeno dove l’hanno inventato, e anche per questo però raramente produce qualcosa capace di entrare nel dibattito pubblico, e c’è La7, che non è un canale all-news, malgrado la sua scaletta giornaliera preveda un programma di approfondimento dopo l’altro. Ma è più un mix tra infotainment e talk, anche nelle famose maratone di Mentana in cui i fatti, quando arrivano, sono già stati seppelliti da una marea di parole immediatamente smentite. Sky, nel senso della piattaforma, bisogna potersela permettere, e lo stesso vale per le altre piattaforme, che essendo online non hanno nemmeno l’obbligo di dover fare un telegiornale, come accade con gli utilizzatori delle frequenze radiotelevisive (che sono pubbliche, come le spiagge, ogni tanto giova ricordarlo). Poi certo, c’è l’online, dove il problema non è la quantità, semmai la qualità, per tacere della rilevanza di ciò che giornalmente appassiona i fomentatori di trend social. Se ci sono colpe, in quel caso sono da imputare all’utenza.


Ma la tv è ancora un leviatano, anche se la guardano molti meno di un tempo: come nel caso dei giornali, perché è lì che si crea il dibattito, lì nascono i temi di cui poi parlano tutti, anche sui media nuovissimi, poi riprendendosi a vicenda in un ciclo ininterrotto. E controllabile. La politica lo sa, e per questo se ne interessa ancora. In una giornata qualsiasi di quasi fine agosto, il totale delle misurazioni secondo i dati ufficiali pubblicati dall’ufficio stampa della Rai dice che le generaliste più RaiNews hanno avuto nelle 24 ore una media di un milione e 774mila spettatori, pari al 26,5%, sull’intera giornata, contro il 26,2 di Mediaset. Meno di 2 milioni, poco più di 5 contando la concorrenza, una decina sommando tutto ma proprio tutto ciò che va in onda: non molti, ma molto importanti, se si ritiene che lavorando su quella platea si possa incidere sul consenso nel Paese quel tanto che basta per rimanere in sella. E l’operazione, detta in parole semplici, è in fondo questa: usare la Rai per raccontare la propria versione della storia, ma anche della Storia con la “esse” maiuscola, tacendo le altre, a un campione in fondo piccolo ma decisivo di persone che probabilmente non hanno accesso ad altri media e fonti d’informazione, probabilmente hanno basso reddito e scolarizzazione, ed età elevata. Non che sia una novità: pochi mesi fa è uscito un fondo in cui Marcello Veneziani sosteneva che “solo i faziosi hanno tutte le certezze sul delitto Matteotti”, ma un conto è scriverlo su giornali d’area come Verità, Giornale e Libero, un altro è avere di fronte il pubblico Rai. Un target, come si usa dire, a cui no, Antonio Scurati non può andare a leggere il proprio racconto dell’assassinio Matteotti, perché parlando di Matteotti avrebbe parlato sicuramente anche di fascismo, e parlando di fascismo si sarebbe poi posto il problema del fatto che la forza che esprime l’attuale premier deriva da quella storia lì, senza peraltro averci mai fatto i conti fino in fondo.


Nei giorni successivi al fattaccio, sui social, molti hanno scritto che la censura avrebbe dato ancora più visibilità al testo di Scurati, visto che un po’ tutti – anche Ossigeno, sul proprio sito – lo stavano pubblicando: ed è vero, ma probabilmente non per una certa fetta dei tipici spettatori Rai. Tanto basta e, se questo è il criterio, si può applicare a tutto, o almeno ci si può provare: così, il giorno delle elezioni in Francia, a luglio, RaiNews decide di aprire col Festival delle Città Identitarie, provocando le dimissioni della vicedirettrice Ida Baldi e un comunicato del comitato di redazione che dice, tra le altre cose, che il servizio pubblico “non aveva mai toccato il fondo in questo modo, mai aveva abdicato così alla sua missione informativa in occasione di un appuntamento elettorale così importante”. Il direttore Paolo Petrecca, invece, è rimasto al suo posto: nella sua gestione, iniziata nel 2021, si era già segnalato per, nell’ordine: esser stato accusato di voler ammorbidire un servizio sull’accusa di stupro a Leonardo Apache La Russa; aver fatto mandare in onda senza contraddittorio Gli appunti di Giorgia, rubrica settimanale via social della premier; aver interrotto l’assemblea nazionale del Pd poco prima dell’intervento della sua Segretaria Elly Schlein per trasmettere l’ospitata di Elon Musk ad Atreju; aver confessato che, quando Meloni parla, parole sue, si emoziona “assai”, come del resto era stato “ammaliato, ammirato, conquistato da Giorgio Almirante”. E poi, le elezioni sono un argomento delicato, ecco quindi che in occasione dell’ultima campagna elettorale spunta una piccola ma importante modifica della par condicio, in base alla quale lo spazio concesso a esponenti del Governo va scorporato da quello dato in totale alle forze in gara.


continua sul numero 17 di Ossigeno

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