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  • Immagine del redattoreMarina Calculli

One nation, under God



Nella sua critica della religione, Karl Marx scriveva che «l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo». Per Marx la religione non cattura una realtà trascendente e precedente rispetto all’uomo e al mondo. Al contrario, sono lo Stato e la società a produrre la religione, «una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto». Il successo di Marx (così come l’odio dei suoi detrattori) deve la sua longevità alla validità di molte delle sue affermazioni. E, in effetti, la prospettiva di Marx ci può aiutare a capire la curiosa, profana alleanza tra la cristianità e i miliardari americani nell’attuale era tardo-capitalista, un’alleanza che sta riformando la società, la politica e le istituzioni degli Stati Uniti, ma i cui effetti sono destinati a riverberare ben oltre i confini americani.


Sebbene si guardi generalmente all’America come al bastione della democrazia liberale sotto il cappello di uno Stato formalmente secolare, un enorme network di associazioni religiose e pastorali, alleato dell’estrema destra del GOP, il Partito repubblicano, sta mettendo in crisi l’assunto della separazione tra Stato e Chiesa. Il loro intento – sempre più chiaro – è quello di catturare alcune istituzioni dello Stato dall’interno. Gli studiosi che si occupano di questo network di potere fanno riferimento all’ideologia del “nazionalismo cristiano”, in quanto i suoi membri associano l’idea della vita civica negli Stati Uniti (esclusiva della razza bianca, di coloro che hanno la nazionalità americana e sono nati in America) a una particolare interpretazione dell’identità cristiana – preferibilmente protestante. Il loro mito è quello di una nazione nata “cristiana”, con i padri fondatori investiti di una missione divina. Di conseguenza, contestano i presupposti di uno Stato secolare quale l’America formalmente è, come sancito dal Primo emendamento della Costituzione federale. Per molti decenni, l’ascesa del nazionalismo cristiano è stata vista come una “rivoluzione silenziosa”, che nei numeri appare però impressionante: un sondaggio del 2021 del Baylor Religious Centre ha mostrato che il 21% degli americani ritiene che l’America dovrebbe essere dichiarata una “nazione cristiana”, seguito da un consistente 43% di “moderati” che ritiene che il governo federale dovrebbe promuovere i valori religiosi, cui si oppone un mero 36 % di cittadini che difende la separazione tra Stato e Chiesa. Se si spacchettano questi dati per partito politico, è significativo che, alla vigilia delle elezioni di midterm del 2022, il 61% degli elettori repubblicani si sia detto a favore di proclamare l’America una “nazione cristiana”.


Non possiamo però più parlare di rivoluzione silenziosa. Il silenzio è stato di fatto rotto dall’ascesa di Donald Trump alla presidenza nel 2017. Da allora i nazionalisti cristiani sono diventati sempre più “vocali”. Non vi è dubbio che uno degli strumenti chiave con cui Trump conquistò il suo potere fu l’appunto l’alleanza con i nazionalisti cristiani. Come diversi studi hanno mostrato, la vittoria a sorpresa di Trump nel 2016 – soprattutto in Stati dove la competizione era serrata, come il Wisconsin, il Michigan e la Pennsylvania – fu assicurata da una strategia di campagna elettorale focalizzata su xenofobia, razzismo, omofobia e sessismo, unita alla politicizzazione dell’insicurezza economica, ma sempre fusa con una sorta di insicurezza culturale, ovvero l’idea di essere sotto attacco da parte di una cospirazione che, a seconda dei contesti, ha per autori gli immigrati o la sinistra.


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