Oggi noi emiliani e romagnoli ci svegliamo guardando mestamente il cielo, un po’ meno nero, con qualche raggio di sole, sperando sia clemente.
Poi cerchiamo di capire.
Ci sono due teorie.
Da un lato il cambiamento climatico, negato addirittura da chi governa il Paese, con irrisione di chi ne denuncia gli effetti, e con la denuncia, penale, di chi protesta e cerca di attirare l’attenzione.
Un cambiamento climatico, soprattutto nella pianura padana, che propone periodi di siccità sempre più lunghi alternati a veri e propri cicloni.
Già abbiamo il record dell’aria più inquinata d’Europa, purtroppo a questo si aggiunge il clima peggiore d’Italia.
Ma sarebbe stupido e ottuso ricondurre il disastro e le morti di ieri solo al cambiamento climatico e al governo negazionista, come se fosse un evento esterno imprevedibile, come un terremoto (ogni riferimento a chi ha usato questo accostamento è del tutto casuale) perché il cambiamento climatico si innesta su un territorio specifico, oggetto dell’azione umana.
L’Emilia Romagna è un territorio cementificato dove il suolo è consumato senza pietà, dove ogni giorno i suoi abitanti si svegliano e sanno che dovranno correre più velocemente della nuova immensa lottizzazione logistica, del nuovo stabilimento dove prima c’era un prato, magari in zona con tutela paesaggistica, del nuovo stadio con annesso parcheggio sotterraneo, della nuova autostrada costruita a metà che finisce nei campi, della nuova bretella, del nuovo passante, dell’aeroporto allargato per far atterrare enormi aerei cargo che porteranno le merci da stoccare nei nuovi depositi, il tutto rigorosamente definito green perché contemporaneamente si pianta qualche alberello da qualche parte.
E le parole d’ordine sono sempre le stesse, i posti di lavoro, il PIL, la produttività, la crescita, in una parola il progresso.
Come se fossimo in piena rivoluzione industriale, come se la crescita fosse infinita, quando invece siamo agli sgoccioli (e l’abbiamo pure persa, la rivoluzione industriale, visto che stiamo tornando ai salari di Dickens).
E se il suolo è cementificato, se i nostri fiumi, e soprattutto i nostri torrenti, sono ridotti e ristretti, l’acqua che scende tutta in una volta scorre veloce, non entra in falda, non si espande in ampi alvei, ma arriva a bomba nelle città e nei centri abitati, fa saltare i ponti, fa franare le strade.
E arriva il conto da pagare, in vite umane e beni materiali.
Ma chi paga?
Non certo chi ha cementificato e chi glielo ha concesso con le normative ad hoc e ne porta la responsabilità politica.
Se non cambiamo questo modello di sviluppo, quello che è successo ieri sarà la normalità.
Non abbiamo fatto abbastanza, dobbiamo organizzarci per fare di più, insieme.
Perché non si tratta di interessi particolari, di iniziative NIMBY, non nel mio cortile, perché il cortile ormai è collettivo e gli interessi sono di tutti, o almeno della maggioranza assoluta, quella che paga il conto.
Il nostro cortile è la regione, il Paese, il pianeta.
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