È stata presentata il 31 maggio scorso in Cabina di Regia la Terza relazione sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, documento incentrato sull’analisi di due aspetti estremamente importanti per la buona riuscita del PNRR: i risultati conseguiti nel secondo semestre del 2022 e gli obiettivi previsti per il primo semestre del 2023.
Dai primi dipende l’erogazione dei 19 miliardi di euro della terza rata dei finanziamenti UE, che l’Italia ha richiesto a fine dicembre 2022 e non ha ancora ricevuto – proprio nei giorni scorsi durante una discussione alla Camera Raffaele Fitto, Ministro per gli affari europei, ha rassicurato su come la complessa fase di assessment con la Commissione Europea sia in dirittura di arrivo. Relativamente ai secondi, il cui raggiungimento è necessario per richiedere a Bruxelles la quarta rata da 16 miliardi di euro attesa per la fine di giugno, il Governo si mostra cauto: a causa, fra le altre cose, dei ritardi già accumulati nei primi mesi di quest’anno, si è convenuto di procedere ad una rimodulazione complessiva del Piano alla cui approvazione è sotteso l’invio della richiesta di pagamento.
Riassumendo: alla data odierna non abbiamo ancora ricevuto la terza tranche di risorse e probabilmente non saremo nelle condizioni di richiedere la quarta a breve.
Fra le motivazioni addotte a giustificare questi ritardi, oltre alla situazione di incertezza economica internazionale causata dal conflitto russo in Ucraina (con conseguenti crisi energetica, aumento dei prezzi delle materie prime e rallentamenti negli approvvigionamenti), il dito viene puntato sugli enti pubblici locali (soprattutto i Comuni, soprattutto quelli del Centro-Sud, soprattutto quelli di piccole dimensioni), che non avrebbero le capacità tecnico-amministrative per gestire i processi necessari alla realizzazione dei progetti entro le scadenze prefissate.
SPOILER: è la verità.
Ma siamo proprio sicuri che la situazione attuale di difficoltà delle amministrazioni locali non fosse prevedibile? Udite, udite: lo era. Già all’interno del testo del PNRR stesso, la necessità di ristrutturazione della PA emerge con forza: viene sottolineato come il numero dei dipendenti pubblici in Italia sia inferiore alla media OCSE di oltre 4 punti percentuali, che il ricambio generazionale nell’ultimo decennio sia stato lento e parziale (un nuovo assunto a fronte di tre cessazioni nelle amministrazioni centrali e due in quelle locali), come la carenza di nuove competenze sia anche determinata dal taglio delle spese di istruzione e formazione per i dipendenti pubblici (quasi dimezzate negli ultimi 10 anni).
Si dice nel PNRR, testualmente: “se una PA con crescenti problemi strutturali deve gestire un insieme di regole sempre più complicate, il risultato è la progressiva perdita della capacità di implementare gli investimenti, sia pubblici sia privati da parte del sistema-Paese”. Lapalissiano, oserei dire.
Infatti la riforma della Pubblica Amministrazione viene identificata nel PNRR come “riforma orizzontale”, cioè un’innovazione strutturale d’interesse traversale a tutte le Missioni, idonea a migliorare “l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del Paese”.
Sembra, però, un cane che si morde la coda: le amministrazioni locali sono in difficoltà nel portare a termine gli interventi del Piano, volti fra le altre cose a migliorarne l’efficienza e le competenze ed aumentarne l’organico, proprio perché poco efficienti, dotati di competenze non adeguate e sotto organico.
Ma per comprendere meglio l’impasse in cui Comuni ed altri enti locali si trovano, vediamo nel dettaglio le difficoltà che vengono loro imputate.
Criticità amministrative e organizzative
Un primo aspetto da sottolineare riguarda la logica che sottostà alla fase operativa del PNRR per cui, nelle misure con rilevanza territoriale, si ha un primo momento di selezione centralizzata degli interventi e uno successivo in cui le amministrazioni centrali distribuiscono le risorse ai vari soggetti attuatori locali (leggasi: chi deve occuparsi della realizzazione operativa dei progetti); in particolare gli enti comunali (in Italia, il numero di Comuni da fonti ISTAT si attesta nel 2023 a 7.901 unità) sono soggetto attuatore di più del 53% dei progetti relativi alle misure oggetto di riparto territoriale e sono comunque molto spesso coinvolti anche nelle altre iniziative di cui non sono diretti responsabili. Hanno, quindi, un ruolo di primo piano nel contesto complessivo del PNRR.
Se l’individuazione centralizzata degli interventi, grazie a linee guida e procedure standardizzate, è stata rapida ed efficiente, non lo stesso si può dire per la successiva fase attuativa, a causa principalmente di una non corretta valutazione della reale capacità organizzativa e amministrativa dei singoli Comuni nella gestione dei processi di realizzazione degli interventi.
Utile per capire meglio le difficoltà che molte amministrazioni comunali stanno incontrando è l’analisi che la Corte dei Conti ha effettuato confrontando le stime del potenziale impatto finanziario connesso all’attuazione di oltre 53.000 progetti previsti dal Piano nel periodo 2023-2026 con gli andamenti storici della spesa comunale destinata agli investimenti: emerge, infatti, che i Comuni dovrebbero realizzare un aumento di spesa medio dell’83% rispetto a quello registrato nel quadriennio 2017-2020 (quando, cioè, i fondi PNRR non c’erano). Tale aumento risulterebbe ancora più significativo considerando i Comuni del Centro e del Sud (+100%) per raggiungere il picco massimo nelle Isole (+126,6%). Numeri che mettono in evidenza come i Comuni italiani, soprattutto quelli di minori dimensioni, si stiano trovando a gestire dotazioni finanziarie senza precedenti e che richiedono loro uno sforzo aggiuntivo a cui non sono preparati né hanno esperienza. E questo può ripercuotersi anche sulle politiche di investimento ordinarie.
Infatti, come più volte sottolineato da ANCI (da ultimo, nella Lettera del 7 aprile 2023 ai Ministri Fitto e Giorgetti), la capacità di spesa delle amministrazioni comunali incontra, soprattutto nel breve periodo, grandi difficoltà nella programmazione e nei pagamenti a causa della mancanza di risorse umane e della carenza di competenze gestionali e tecniche. Non deve stupire, a questo proposito, l’incremento delle spese consulenziali sostenute dagli enti nella fase di progettazione degli interventi (attestatosi nel biennio 2021-2022 al 22,5%) finalizzato a reperire fuori dall’amministrazione le competenze necessarie per affrontare le complesse procedure di partecipazione ai bandi.
Il ricorso sistematico a consulenti esterni potrebbe far storcere il naso, ma è bene ricordare che l’assunzione da parte delle amministrazioni di risorse qualificate da inserire nel proprio organico, oltre ad incontrare le ordinarie difficoltà e lungaggini dei processi di reclutamento pubblici, è ulteriormente complicata dal fatto che si tratta prevalentemente di contratti a tempo determinato legati all’orizzonte temporale del Piano (destinato, a meno di proroghe, a concludersi entro il 2026) e, per questo, potenzialmente poco attrattivi.
Frammentazione degli interventi
Un’altra potenziale criticità è legata al frazionamento delle varie misure previste dal PNRR nella competenza di moltissimi soggetti attuatori, estremamente variegati per dimensione, capacità amministrativa e solidità finanziaria (Comuni, Province, Regioni, Città Metropolitane, Società concessionarie, Università ed Enti di ricerca, Provveditorati, Scuole, ASL e Aziende Sanitarie, e così via). A titolo di esempio, la misura “M1C1 Investimento 1.2 Abilitazione e facilitazione migrazione al Cloud” di cui è Titolare il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale, a fronte di un finanziamento complessivo di 1 miliardo di euro, prevede una platea potenziale di 16.500 enti.
Questo evidenzia come le misure del PNRR siano fortemente frammentate, caratterizzate da un numero elevato di progetti di importo economico assai modesto (ma non per questo poco utili) attuati da un numero notevole di Comuni e altri enti: in particolare, i progetti di importo inferiore o uguale alla soglia di un milione di euro, qualificabili come piccoli interventi, sono pari a circa l’87% del totale.
Una simile parcellizzazione rappresenta un punto di debolezza dell’attuale formulazione del Piano in quanto contribuisce alla dispersione delle risorse (monetarie e non), innescando l’insorgere delle già menzionate problematiche derivanti dalle carenze nella capacità dei soggetti attuatori di realizzare gli investimenti programmati. In primo luogo, infatti, la numerosità di progetti di importo molto limitato risulta riferibile ad una moltitudine di soggetti con capacità gestionali e amministrative e dotazione di personale estremamente eterogenee. Inoltre, per effetto della frammentazione, il singolo ente è interessato da un elevato numero di progetti differenti da seguire, spesso contemporaneamente, generando colli di bottiglia e dispersione delle competenze.
Anticipi di spesa
Un'altra difficoltà che i Comuni – soprattutto quelli di piccole dimensioni – stanno riscontrando riguarda gli anticipi di spesa sugli interventi, spesso insostenibili per le proprie casse.
Il problema è legato al fatto che i meccanismi del PNRR prevedono che siano proprio le amministrazioni ad anticipare alle imprese appaltatrici il 90% dei costi sostenuti per i lavori: infatti, secondo il Manuale delle procedure finanziarie degli interventi PNRR pubblicato sul sito del MEF, gli enti possono fare richiesta di “un’anticipazione fino ad un massimo del 10 per cento del costo del singolo intervento del PNRR” (l’importo può essere maggiore del 10% solo in casi “debitamente motivati”). Successivamente subentra la procedura di rimborso, che prevede l’erogazione di “una o più quote intermedie, fino al raggiungimento (compresa l’anticipazione) del 90% dell’importo della spesa dell’intervento (…) a titolo di rimborso delle spese sostenute”, quindi solo dopo che l’Amministrazione abbia rendicontato i pagamenti già effettuati. La corresponsione dell’ultimo 10% sottostà ad analoghe procedure, cui si aggiunge anche la necessità di dimostrare l’avvenuto raggiungimento degli obiettivi previsti dalla misura (ricordiamo, infatti, che il PNRR è un piano performance-based).
Va sottolineato, in particolare, che ai Comuni sotto i 5 mila abitanti sono destinati circa 70.000 dei progetti candidati ai finanziamenti del PNRR, nei quali sono confluiti anche progetti approvati dalle Regioni prima del 2021 e che sono quindi adesso assoggettati a meccanismi di erogazione dei fondi diversi rispetto a quelli che erano in vigore quando sono stati validati: se in passato la Regione, dopo un congruo anticipo, garantiva i contributi necessari per i pagamenti in funzione dell’avanzamento dei lavori, con le regole attuali sono invece i Comuni a dover anticipare le somme, spesso ingenti, rischiando di rendere di fatto impossibile assolvere ai pagamenti in favore delle imprese appaltatrici.
Diverso ancora è il discorso per gli interventi che afferiscono al tema della transizione digitale della Pubblica Amministrazione (per intenderci: la migrazione in Cloud, l’attivazione di servizi online per i cittadini, SPID, CIE, PagoPA, etc.), i cui avvisi di partecipazione sono pubblicati sul sito PA Digitale 2026. In questo caso, l’accesso ai finanziamenti è in generale più semplice, poiché il Dipartimento per la Transizione Digitale, vista l’importanza del tema (vedasi la riforma orizzontale della PA di cui sopra), ha messo a disposizione anche una modalità di partecipazione di tipo semplificato: si tratta delle cosiddette “soluzioni standard”, che definiscono a priori gli obiettivi da raggiungere e le modalità operative (l’Amministrazione non deve, quindi, scrivere un progetto ad hoc) e corrispondono una cifra forfettaria, dimensionata in genere in base alla grandezza del Comune in termini di abitanti ed al numero di servizi digitali da attivare o da migrare in Cloud. L’ulteriore semplificazione è legata, poi, al fatto che non è necessario rendicontare ogni singola spesa sostenuta, ma l’erogazione della somma dovuta viene riconosciuta per intero a seguito di raggiungimento dei target finali predefiniti.
Anche in questo caso, però, la modalità di corresponsione dei fondi può generare criticità: gli avvisi pubblicati, infatti, chiariscono che il Dipartimento, solo dopo aver verificato che tutti gli obiettivi prefissati siano stati centrati, procede al trasferimento delle risorse al soggetto attuatore, il quale a sua volta “provvede al pagamento dei corrispettivi dovuti a terzi per la realizzazione del progetto”. Questo significa che l’amministrazione comunale riceve la somma richiesta al termine del progetto (e le tempistiche possono essere anche molto lunghe – si pensi che per ultimare le attività di migrazione in Cloud sono concessi fino a 15-18 mesi dalla contrattualizzazione del fornitore) e solo se tutti i target sono stati raggiunti. Soltanto a quel punto, secondo le logiche di questi bandi, può procedere al pagamento di eventuali soggetti terzi a cui si sia rivolta. In altre parole: o il Comune anticipa i pagamenti attingendo alle proprie casse o il fornitore lavora “gratuitamente” fino al completamento del progetto (sperando, ovviamente, che il collaudo abbia esito positivo).
Spese future
Sempre di carattere economico è un ultimo ma importante elemento di difficoltà per le amministrazioni locali su cui è utile soffermarsi, e cioè la necessità di valutare e quantificare, anche per gli anni a venire, il proprio fabbisogno di risorse economiche derivanti dagli interventi finanziati, guardando ad un orizzonte temporale più esteso rispetto al 2026 imposto dal PNRR. Per comprendere meglio questo concetto consideriamo la misura M1C1 (“Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA”), i cui interventi spesso prevedono una modifica nel modello di spesa: è il caso del già citato finanziamento per la migrazione in Cloud, che, trattandosi di un servizio e quindi essendo soggetto ad un canone, non comporta più un investimento in conto capitale ma si traduce in una spesa in conto corrente. In altre parole: ben venga che il piccolo Comune del caso riceva risorse economiche per dismettere il proprio datato server on premise (magari – storia vera, NdA – ospitato in un sottoscala climatizzato tramite una finestrella aperta affacciata sulla via principale, alla faccia della cyber sicurezza e dei rischi legati alla continuità operativa), ma la migrazione dei propri servizi in Cloud comporta la necessità per gli anni seguenti di far fronte ad una spesa ricorrente che prima non aveva e per la quale dovrà trovare le necessarie coperture (chi lavora nella PA rabbrividirà al solo sentir parlare di OPEX).
Che fare?
Da quanto detto risulta evidente che una criticità sugli interventi del PNRR esista e che Comuni ed altri enti locali ne siano loro malgrado coinvolti. Tuttavia, è importante sottolineare che le difficoltà o i ritardi riscontrati da tali enti non sono da imputare alla loro colpa diretta: sono il risultato di disparità storiche – di competenze, di personale, di capacità di spesa – che colpiscono soprattutto le amministrazioni più piccole e più periferiche.
Sul tema PNRR c’è stato un errore di valutazione a monte, derivante dalla mancanza di informazioni sulle risorse complessivamente a disposizione (non solo il Recovery Fund, ma anche altre fonti di finanziamento dell’Unione Europea ancora in corso o che sarebbero arrivate) e di una riflessione seria sulla capacità tecnico-organizzativa e di spesa delle nostre amministrazioni. Questo avrebbe permesso di mettere in atto per tempo misure opportunamente ragionate per aumentare la capacità amministrativa del Paese.
A questo punto vi chiederete: cosa si può fare? Questa è un’ottima domanda che, ovviamente, non ha una risposta semplice, soprattutto nel breve termine.
Vista la carenza di personale e la scarsità di competenze tecniche specifiche che affligge tutta la Pubblica Amministrazione (ma soprattutto gli enti locali), sarebbe innanzitutto importante che i contratti a tempo determinato ottenuti a valere sulle risorse del PNRR non scadessero nel 2026, ma avessero un orizzonte temporale di più ampio respiro, in modo da risultare maggiormente appetibili sia per i giovani che per personale di esperienza.
L’estrema parcellizzazione degli interventi (e la dispersione di risorse che ne consegue) rende poi evidente la necessità di una strategia unitaria di governance territoriale, potenziando il ruolo di Regioni e società in-house, che consenta agli enti locali di realizzare una sinergia in termini di competenze e strutture, per migliorare l’efficienza nella progettazione e realizzazione degli interventi, ottimizzando le risorse complessivamente disponibili.
È chiaro che l’origine dei problemi strutturali del PNRR vada fatta risalire a ben prima che l’attuale esecutivo si insediasse. Ma è altrettanto chiaro che negare l’evidenza facendo finta che vada tutto bene (che fastidiosa sensazione di déjà vu), agendo solo sulla rinegoziazione delle scadenze con Bruxelles e stralciando dal Piano i progetti che rischiano di minare il raggiungimento degli obiettivi, cercando di assicurarsi la ricezione dei fondi ma senza garantirne una ricaduta efficace sui territori, sia una strategia che può funzionare (forse) nel brevissimo periodo, ma che non salverà gli enti locali dalle sabbie mobili in cui stanno sprofondando.
Comments