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  • Immagine del redattoreGiorgio Maran

Quattro giorni, per tutti e per tutte



La settimana di quattro giorni è diventata il tubino nero dei programmi elettorali. Sta bene su tutto e pare vada bene per tutti. Sembrano passati gli anni nei quali provare a parlare di riduzione dell’orario di lavoro comportava un’immediata reductio ad Bertinottium, uno stigma in conseguenza del quale chi provava a ragionare di redistribuzione del lavoro era automaticamente segnato come vecchio e massimalista.


Alle scorse elezioni politiche la riduzione dell’orario era presente, in una gradazione che va dalla semplice suggestione alla proposta strutturata, nei programmi di almeno quattro partiti, divisi in tre differenti coalizioni: Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Unione Popolare e Partito Democratico. Fridays for Future ha inserito la settimana di 4 giorni nella propria piattaforma contenente gli obiettivi strategici per la de-carbonizzazione. Nei giorni passati, perfino il governo più a destra della storia repubblicana per bocca del ministro al Made in Italy Adolfo Urso si è detto disposto a rifletterci, rispondendo alla sollecitazione lanciata da Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, più grande sindacato italiano con 5 milioni di iscritti.


Insomma, se dovessimo prendere per buone le dichiarazioni alle agenzie di stampa, la settimana di quattro giorni sarebbe a un passo. Tuttavia, la realtà ci racconta una storia ben diversa.

Il tempo di lavoro è oggi distribuito in maniera profondamente iniqua. Alcuni lavorano troppo, a causa di culture aziendali presenzialiste nelle quali fa carriera chi se ne va dall’ufficio per ultimo, di croniche -e spesso volute- carenze di personale, di uno sviluppo tecnologico orientato al controllo e all’invasione dei tempi di vita. Altri lavorano troppo poco, confinati in lavoretti che sono tali solo nella prospettiva di chi li offre, mai di chi deve procurarsi un reddito, e in part-time involontari tipici soprattutto nei settori dove si concentra l’occupazione femminile. Infine, alcuni, pur volendo, non lavorano affatto.


In un paese che vede i salari fermi da oltre trent’anni, la riduzione dell’orario di lavoro non può avvenire se non a parità di salario. Per alcuni si trasformerà effettivamente in un giorno in meno di lavoro a settimana, per altri, in turni più brevi o intervallati da riposi più frequenti. Altri lavoratori ancora, per esempio quelli in part-time involontario, potrebbero scegliere di continuare a lavorare le stesse ore di prima ma per un salario maggiore.

La proposta della settimana di quattro giorni nasce proprio dall’esigenza di redistribuire il lavoro salariato tra tutti i potenziali lavoratori e lavoratrici. Non sarebbe una novità assoluta: dalle 12 o 14 ore al giorno della prima rivoluzione industriale siamo arrivati alle 8 ore attuali con il sabato che è diventato festivo. Nel frattempo, non siamo diventati più poveri, anzi la nostra capacità di produrre e consumare beni o servizi è aumentata esponenzialmente.


Però oggi il lavoro, proprio come ricchezze, potere e saperi, è reso artificialmente scarso. Non abbiamo l’esigenza di lavorare di più per produrre di più ma di lavorare meglio e tutti. Ne beneficerebbe l’ambiente - da qui il sostegno dei movimenti ambientalisti - che sarebbe sfruttato meno intensamente. Ne beneficerebbe la parità di genere perché meno lavoro significa anche più tempo per riequilibrare l’altro lavoro, quello domestico e di cura che oggi invece è lasciato principalmente sulle spalle delle donne. Infine, ovviamente ne beneficerebbero lavoratrici e lavoratori ai quali risulta evidente che lavorare meno significa più qualità di vita.


Eppure, nonostante si stia facendo strada una nuova sensibilità attorno alla settimana di quattro giorni, all’orizzonte si addensano parecchie nubi.

Nessuno, e meno che mai l’attuale governo, sembra avere la volontà di affrontare la profonda ingiustizia dell’attuale società mettendo al centro delle proprie riforme il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Così, la settimana di quattro giorni si sta trasformando in un benefit per i lavoratori che già occupavano i posti migliori. Molti di loro dopo la pandemia si sono trovati a fare un bilancio della propria vita - le Grandi Dimissioni ne sono la cartina tornasole - e il lavoro ha perso diversi gradini nella loro personale classifica delle priorità. Così alcune aziende, spaventate dal poter perdere i lavoratori più qualificati, hanno reagito offrendo una migliore conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.


Tuttavia, la settimana di quattro giorni non deve ridursi a questo. Se sarà un benefit per pochi ne verranno ridimensionati gli effetti positivi su tutta la società e contribuirà ad acuire le disuguaglianze tra chi possiede ricchezze e chi ne è privo, tra chi detiene i saperi e chi non ha gli strumenti per imparare, tra esercita il potere e chi deve ubbidirgli. La richiesta di più tempo di vita liberato dal ricatto della privazione economica contiene in sé un potenziale trasformativo rivoluzionario. Perché si affermi, come sempre, occorre che la richiesta parta dal basso, dal movimento delle lavoratrici e dei lavoratori: la settimana di quattro giorni deve essere una battaglia di tutti e della quale tutti possano goderne i benefici.

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