Marco Omizzolo
Quel fascismo mai bonificato

Siamo nell'Agro Pontino, reso redento, c'è scritto sulla facciata del palazzo comunale di Sabaudia, «da Benito Mussolini capo del Governo dal millenario letargo di mortifera sterilità» con un'opera considerata epica ma che ha lasciato sul campo decine di italiani di cui nessuno o quasi ricorda più il nome. Il patriottismo fascista prevede, infatti, la nostalgia per il bonzo di Predappio e, al contempo, l'inesorabile oblio per coloro che invece sono morti per causa sua, nelle opere di bonifica, nelle guerre coloniali, nei campi di concentramento o durante la Seconda guerra mondiale. Oggi tutto si ripete coi respingimenti in mare, gli accordi libici, lo sfruttamento del lavoro, l'emarginazione e la ghettizzazione, che lasciano nei nostri cimiteri e nel Mediterraneo centinaia di immigrati ogni anno. Le bonifiche attuate, peraltro, a ben vedere e nonostante la propaganda della dittatura, rappresentano solo il 6% di quelle pianificate dal regime.
Ciò nonostante, sono una di quelle opere ricordate tra “le cose buone fatte dal fascismo”, quasi a indorare la pillola amarissima delle leggi razziali, della colonizzazione, della Seconda guerra mondiale condotta accanto all'asse nippo-nazista, dei campi di concentramento, lavoro forzato e sterminio. In uno di questi, in Tunisia, mio nonno Giovanni è stato deportato dai nazisti, obbligato ai lavori forzati, condannato alla fame in quanto italiano nato in un Paese straniero da genitori italiani emigrati per lavoro. Potrebbe essere definito anche lui – come Pertini, Lussu, Malaparte e Spinelli – un uomo «mandato in vacanza al confine», come dichiarò Berlusconi nel 2003 a un giovane giornalista inglese di nome Boris Johnson e al collega Nicholas Farrell. Insomma, un uomo fortunato, mio nonno.
Revisionismi e propagande che, in realtà, nel Pontino non sono mai state definitivamente superate. Anzi, proprio nelle ex paludi sopravvivono nelle retoriche, nelle politiche, nelle specifiche forme di impresa padronale e nei linguaggi che si possono ascoltare nei bar del centro delle sue maggiori città, d'estate nelle sue sterminate spiagge, nei consigli comunali, negli uffici di alcune aziende e nei circoli cittadini che sono l'avamposto di un'ideologia che continua a fare proselitismo anche tra i giovani, sebbene non tra tutti. Sono i nipoti di un'Italia che era fondata sulla tessera del Partito nazionale fascista, sul camerata che diveniva podestà e che aveva diritto di legnata e poi di vita e di morte sugli altri italiani, magari da mandare in Germania su treni piombati per vedere l'effetto che fa essere opposizione quando al governo c'è il Fascio littorio. Oggi invece camminano con piglio accigliato lungo le vie delle città di fondazione come Sabaudia o Latina, spesso con bicipiti in bella vista, petto in fuori, tatuaggio sotto la camicia che richiama la croce celtica o cita qualche frase idiota del regime.
Non a caso si trova, tra gli annali dei sindaci di Latina (ex Littoria), ad esempio, tale Ajmone Finestra, già senatore per il Movimento sociale e, ancor prima, combattente per la Repubblica di Salò, a fine guerra imprigionato e condannato come “fucilatore di italiani” da un tribunale presieduto da Oscar Luigi Scalfaro che ne chiese la condanna a morte, evitata solo grazie alla sostituzione del magistrato. Il 22 giugno del 1946, il governo italiano approvò l’amnistia proposta dal ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti per una pacificazione nazionale, e il camerata Finestra, fascista mai pentito e pronto per iniziare la sua carriera politica nelle rinnovate istituzioni democratiche italiane, tornò libero. Poco importa se, mentre Finestra girava con moschetto e camicia nera, nella primavera del 1944 due soldati nazisti, per rappresaglia nei confronti di un pastore del comune pontino di Roccagorga, Alfiero Rossi, che non amava essere da loro rapinato del suo bestiame e aveva “osato” ribellarsi con un innocente gesto di stizza, presentandosi dinanzi alla sua capanna presero due suoi fratellini, Bartolomeo e Giovambattista, e li bruciarono vivi, mentre la madre di quegli innocenti fu rapata a zero e condotta per il paese su una moto sidecar per essere pubblicamente umiliata.
Anche questo per i fascisti di oggi resta solo un incidente della loro epopea da far cadere nell'oblio. A Roccagorga, ad esempio, alcuni discendenti di Alfiero, Bartolomeo e Giovambattista, come un grande e drammatico ricorso storico vichiano, considerano quell'eccidio una responsabilità esclusiva dei nazisti e non dei fascisti. Sintesi perfetta degli orrori di un revisionismo che giustifica in ogni modo quegli italiani in camicia nera anche quando non vi sarebbe spazio che per una condanna storica definitiva e inappellabile.
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