Sui tagli alla spesa per la sanità la presidente del Consiglio Meloni accusa opposizione e stampa di aver raccontato bugie mirate a screditare l’esecutivo, ma forse a non raccontarla giusta è proprio lei. E non sarebbe una novità.
Con i quasi 136 miliardi di euro previsti per il fondo sanitario nazionale nel 2024 (3 in più rispetto ai 133 già stanziati dal precedente governo), si raggiunge “il più alto investimento mai previsto per la sanità”. Così annuncia la premier durante la conferenza stampa svoltasi lunedì per la presentazione del contenuto della prossima legge di Bilancio, prima di fuggire letteralmente dalle domande dei giornalisti presenti in aula (che déjà-vu).
Le cose però non stanno proprio così.
Seppur in valore assoluto questa cifra sia effettivamente la più alta mai raggiunta in Italia, è altrettanto vero che il valore assoluto è di per sé poco significativo. Le cifre indicate dalla presidente del Consiglio non tengono infatti conto dell’inflazione, aumentata a settembre di oltre il 5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e stimata al 2,4% per l’anno prossimo – aumenti che la manovra, la quale prevede per il 2024 circa 1 miliardo di euro in più rispetto alla spesa del 2023, non riuscirà a compensare. Infatti le risorse per la sanità salgono, ma salgono anche (e lo fanno più velocemente) le uscite ed il costo di prodotti farmaceutici e nuove tecnologie: è dunque poco rappresentativo tenere conto solo dell’andamento della spesa nominale.
E benché la premier definisca un “giochetto” considerare l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil, è proprio questo valore che dà la misura dell’investimento effettivo: in Italia, dal già basso 6,6% del 2023, il rapporto calerà al 6,3% nel 2024 (per poi scendere ulteriormente fino al 6,1% previsto per il 2026). Numeri che sembrano dire poco, ma sono in realtà molto significativi: per fare un confronto con i nostri vicini, in Germania si spende in sanità il 10,9% del Prodotto interno lordo, in Francia il 10,1%, nel Regno Unito il 9,3% (con una media europea che si attesta al 7,1%).
Dunque, valutando questi 136 miliardi in termini reali (ossia al netto dell’inflazione) si tratta, di fatto, di un taglio.
Ma forse, ancora più del quanto, è il come ad essere importante.
In conferenza stampa Meloni sottolinea che l’incremento del Fondo sanitario ha come priorità l’abbattimento delle liste d’attesa, una delle principali criticità del Servizio Sanitario Nazionale, aggravata ulteriormente dall’enorme quantità di prestazioni non erogate durante la pandemia, che porta con sé pesanti conseguenze: dalla necessità di ricorrere alle strutture private, alla migrazione sanitaria, fino talvolta alla rinuncia alle cure.
L’esecutivo afferma di voler tamponare la situazione destinando le risorse principalmente al rinnovo dei contratti di operatori ed operatrici sanitari ed alla detassazione degli straordinari e dei premi di risultato legati ad obiettivi di riduzione dei tempi di attesa – aspetto, quest’ultimo, che suona molto come un “ti pago di più se lavori di più” e che ha fatto storcere il naso a più d’uno fra i sindacati degli ospedalieri: chiedere di lavorare più ore ad un personale che già deve svolgere turni notturni e festivi extra per sopperire alla forte carenza di organico di cui soffre il settore non pare una soluzione efficace per accorciare i tempi di attesa e, soprattutto, non è sostenibile sul lungo termine.
Sarebbero invece necessarie nuove assunzioni, ma di assunzioni nella manovra non si parla – o quantomeno non a breve: sono sì previsti provvedimenti relativi al potenziamento dell’assistenza territoriale anche mediante aumenti di organico, ma solo per gli anni 2025 (250 milioni di euro) e 2026 (350 milioni).
E – dulcis in fundo – potrebbe esserci qualcosa di peggio che non assumere personale pubblico di cui c’è forte bisogno? Chiaramente sì. Il processo di recupero delle liste d’attesa pensato dal governo passa, infatti, anche dall’ulteriore finanziamento della sanità privata. In particolare, dei 3 miliardi in più vantati da Meloni per il Fondo sanitario, circa 500 milioni saranno rivolti all’allentamento del tetto alle prestazioni acquistabili da cliniche private accreditate (cioè, nella pratica, potranno essere usati per comprare visite specialistiche, esami, interventi e ricoveri da strutture convenzionate).
L’approccio di fatto sembra essere: se il pubblico non ce la fa, è poco efficiente, non ha abbastanza personale per rispondere alle esigenze del Paese, ben venga ricorrere agli operatori privati, anzi meno male che ci sono. E pazienza se per saltare la fila al pronto soccorso devi pagare 149 euro.
La verità è che in un sistema sanitario come quello italiano, fatto di eccellenze ma anche di gravi problemi strutturali, serve garantire risorse e serve che queste risorse vadano a potenziare e migliorare la sanità pubblica, allontanandola dalla privatizzazione de facto verso cui si sta inesorabilmente dirigendo. È l’unico modo per evitare che le disuguaglianze aumentino, che le persone più fragili vengano escluse dal sistema di cura. È l’unico modo per tutelare “la salute come fondamentale diritto dell’individuo”.
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