Simona Baldelli
Riflessioni su Antigone

Nel settembre del 2001 lavoravo da circa un anno in una piccola radio romana dove tutte le mattine andavo in diretta per quattro ore. Mi venivano richieste allegria ed energia a piene mani e polmoni.
Dopo il crollo delle Torri non sapevo più dove trovarle; dentro di me si era spento qualcosa. Certo non era la prima tragedia collettiva di cui ero cosciente, eppure in quell’occasione mi ero pietrificata.
Dallo scoppio del conflitto in Ucraina ho le stesse difficoltà e ogni cosa che faccio mi pare mille volte più faticosa.
Non è una scala per importanza, non è una classifica. Ma vi sono avvenimenti che, per il modo di raccontarli, per la prossimità o la prossemica con cui vengono presentati, colpiscono il mio immaginario più di altri. Diventano un paradigma. Un macigno. E per chi, come me, vive di immaginario significa non riuscire a schiodarsi di lì, a meno di trovare un modo pubblico, collettivo di elaborarlo.
Dall’inizio del conflitto ci sono state, nella cosiddetta ‘società civile’, delle reazioni forse discutibili, assurde, o addirittura paradossali. Che senso ha annullare un convegno di letteratura, che un étoile decida di non scritturare danzatori russi, che alle manifestazioni sportive internazionali non possano partecipare atleti russi e bielorussi? Certamente nessun nesso logico. Emotivo, forse sì.
Se le emozioni possono condurre a scelte sbagliate o irragionevoli, va rispettata però la necessità di prendere posizione, di non restare spettatori passivi. Perché anche le arti e lo sport sono di questo mondo ed è legittimo voler testimoniare la propria vicinanza o lontananza da ciò che succede, dire: nel momento in cui il fatto accadeva ero presente; questa vicenda mi ha attraversato; non posso far finta di niente; non mi basta uno sfogo d’opinione sui profili social; io non sono indifferente.
E mentre l’interesse dell’opinione pubblica si sposta su nuovi sensazionalismi, il mio immaginario resta pietrificato. Avverto lo stesso bisogno di testimonianza.
Non per dire da quale parte sto (a chi interessa, cosa cambierebbe) ma per porre domande, suscitare riflessioni, capire in che modo si possa costruire la pace.
La prima l’ho posta a me stessa: cosa stai facendo, tu, in questo senso? E mi era insopportabile il pensiero di dovermi un giorno rispondere: niente.
Il mio mestiere è mettere in fila le parole, e offrirle a chi le vuole ascoltare. Dovevo partire da qui.
Allora mi sono chiesta: cos’è che scatena una guerra? Qual è la condizione indispensabile per avere la pace?
In entrambi i casi, la risposta era: giustizia.
L’ingiustizia, o la mancanza di giustizia, sta alla base di sfruttamenti indiscriminati, sopraffazioni, discriminazioni, fame, carestie che generano conflitti. Mentre una società giusta, equa, è una società in pace.
A questo punto, era inevitabile pensare ad Antigone che, da millenni, è simbolo di giustizia contrapposta all’oppressione.
Ho cominciato a rileggere tutte le versioni partendo da Sofocle, e via via in tutte le sue declinazioni, fino ad arrivare al ‘900.
Mi sono accorta che, col tempo, il personaggio si è molto allontanato dall’originale, assumendo man mano i significati di cui gli autori l’hanno rivestito. Antigone era diventata un mezzo di comunicazione a seconda della soggettiva da cui il personaggio veniva raccontato.
Nella versione originale, Sofocle ci presenta Antigone e Creonte in maniera imparziale, laica potremmo dire. Con un po’ di attenzione, vediamo che Antigone non cerca una giustizia oggettiva, ma ne esige una personale. Invoca pietas per il cadavere di Polinice principalmente perché è suo fratello, non perché sia giusto avere pietà per i vinti. Si rivolge a una “giustizia divina”, più alta delle leggi degli uomini, solo perché in quel momento coincide con il suo bisogno privato. Creonte le risponde sullo stesso piano: per dovere di ruolo è obbligato a punirla per aver infranto la legge, ma sul finire della vicenda non è più sicuro della decisione presa, non perché ritenga che Antigone abbia ragione, ma perché è sua nipote, è promessa sposa di Emone, suo figlio.
«Non hai pudore a sentirti isolata con le tue idee?» chiede Creonte ad Antigone, all’inizio della tragedia di Sofocle.
Lei risponde: «Non è vile il culto per chi venne da un comune ventre».
A entrambi manca la visione della polis.
Un mio amico, a questo proposito, fa una giusta riflessione: sul piano personale hanno entrambi ragione ma si parlano senza ascoltarsi, e dunque hanno entrambi torto.
Quando, con un po’ di presunzione ho deciso di affrontare anch’io il personaggio di Antigone, mi sono chiesta per prima cosa se sia possibile essere oggettivi, avere un senso di giustizia equanime, privo di tifoserie, impermeabile alle manipolazioni della comunicazione e dell’informazione. Più spesso comunicazione che informazione.
Su questo tema, ho cercato di inserire una visione più ampia, politica potremmo dire, cercare i punti su cui potrebbero convergere giustizia di governo e di privati cittadini. Poiché questa è l’unica certezza che ho, non ci può essere pace se prima non c’è giustizia.
«La pace si costruisce in tempo di pace» ripete spesso il Coro della mia Antigone.
Sono passati circa duemila e cinquecento anni da quando Sofocle ci interrogò sul significato di giustizia, e ancora non sappiamo rispondere.
Questione politica di primaria importanza, perché la giustizia (e non ripeterò mai abbastanza questa parola), una giustizia che sia davvero equanime e condivisa, è il perimetro dentro il quale si scrive la nostra convivenza, l’idea stessa di civiltà.
Simona Baldelli è autrice per People di Processo ad Antigone - Dramma pubblico in un unico atto, disponibile qui