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Ritorno a Ventotene



People riporta in libreria Il manifesto di Ventotene, testo imprescindibile, oggi più che mai, per definire l'identità europea e anche quella nazionale di cui oggi si torna a parlare, quasi sempre a sproposito. Riportiamo qui un estratto della premessa scritta per questa nuova edizione da Giuseppe Civati.


Nell’epoca della vigorosa ripresa dei nazionalismi e delle forze politiche che se ne fanno interpreti, delle incertezze che attraversano l’Unione europea e nelle pieghe o, forse, fratture del suo progetto non ancora “compiuto”, il ritorno a Ventotene è fondamentale, così come è necessario tornare a leggere il Manifesto di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, con la politicissima prefazione di Eugenio Colorni. Anche perché, ben prima dell’affermarsi sulla scena del sovranismo, che si è imposto elettoralmente in molti Paesi arrivando a governare il nostro, componenti del nazionalismo del secolo scorso sono rimaste nella struttura stessa dell’Unione, rendendole impossibile l’assunzione di alcune scelte decisive, in ragione di un irrisolto egoismo particolaristico di riferimento nazionale. Tanto forte quanto miope.


Eppure, l’Unione o è federalista o non è (e rischia, infatti, di non essere), come si comprende da queste pagine e dalla storia degli ultimi decenni. E non è un caso che la destra, nelle sue forme estreme a cui l’Europa sta tornando ad “abituarsi”, si muova come se Ventotene non ci fosse mai stata, ribadendo la supremazia delle comunità nazionali e quindi la superiorità degli Stati e dei propri ordinamenti rispetto alle istituzioni europee. Approfittando delle timidezze di chi avrebbe dovuto insistere sul percorso di federazione europea, le destre si sono imposte nell’immaginario prima ancora che nella cabina elettorale.

Vi è con ciò la sottovalutazione della malattia politica più grave in assoluto ovvero quel nazionalismo che ora si presenta sotto la dicitura di sovranismo e che – la storia lo ha dimostrato in più occasioni – si trasforma presto in un disegno politico aggressivo verso l’esterno e inevitabilmente escludente all’interno della società in cui si afferma.

Dopo la stagione dei trattati europei e del superamento dei confini, tornano così le frontiere, le cortine, addirittura i muri, trasformando non solo l’Europa, ma ciascun Paese in una “fortezza” – immagine che ci dice, più di ogni altra, della regressione del nostro dibattito pubblico. Anche le modalità con cui l’Europa sta affrontando la guerra in Ucraina dopo l’invasione da parte della Russia di Vladimir Putin tradiscono un eccesso di militarismo e una clamorosa mancanza di politica – non solo quella “estera” – che fa temere il peggio per i prossimi anni. Ciò che più colpisce è la sottovalutazione del proprio ruolo politico a livello internazionale, che l’Europa sembra la prima a non voler esercitare, e che invece, proprio nelle pagine del Manifesto, è individuato con precisione.


Come si legge nelle tesi politiche che stanno alla base della costituzione del Movimento federalista europeo (che fu fondato il 27 e 28 agosto del 1943), il pericolo di un passo indietro dalle conseguenze incalcolabili incombe nuovamente:

Occorrerà invece appoggiare decisamente quel paese o quei paesi che saranno favorevoli alla creazione di organismi federali, e si dovranno mobilitare in ogni paese le forze popolari, perché portino tutto il loro peso nell’imporre la soluzione federalista. La Federazione Europea non potrà superare le grettezze, le tradizioni, gli interessi nazionalistici e realizzarsi che in un tale periodo rivoluzionario e finché sia vivo ancora nella memoria di tutti l’orrore della guerra. Se si lasciasse sfuggire questo momento decisivo, se si lasciassero consolidare di nuovo tradizioni ed interessi nazionali particolaristici, le forze progressiste, quali che possano essere le conquiste ottenute in altri campi, avrebbero tuttavia combattuto inutilmente e perso la loro battaglia. Ben presto, sotto una forma o l’altra, rivedrebbero giganteggiare nuovi fascismi e nazionalsocialismi.


Non è un caso che ogni tipo di impostazione nazionalistica viri verso forme di Stato che con un neologismo chiamiamo democrature, democrazie che diventano dittature o che incorporano vieppiù elementi di autoritarismo, come se non conoscessimo la storia di un continente dove le democrazie si trasformarono nei peggiori regimi totalitari proprio in questo modo. Il pericolo è stato, come è già accaduto, largamente sottovalutato dalle classi dirigenti e dalle forze economiche che hanno preferito accompagnare questi processi, come se fossero del tutto normali. La mobilitazione popolare invocata dai federalisti europei si è nel corso degli ultimi anni assai ridimensionata, per non dire spenta, consentendo alle forze della conservazione e della reazione di imporsi.


Il nazionalismo è un pericolo in ogni caso, perché anche nelle sue forme più moderate e meno aggressive porta con sé una lettura della realtà che è parziale, sulla difensiva e, insomma, inutile: alla ricerca della difesa impossibile dello Stato nazionale di fronte ai processi dell’economia globalizzata, si cerca di “arginarli” con strumenti del tutto inefficaci, che offrono soltanto una parvenza di autonomia e nessuna reale soluzione di governo. La chiusura di fronte ai nuovi nemici dell’euroburocrazia – così come è spesso liquidata l’istituzione europea, con una formula-manifesto che riempie i comizi e le dichiarazioni – nega l’unica possibilità che ci sia offerta per affrontare questioni e problemi che superano la scala nazionale e che avrebbero bisogno di istituzioni sovranazionali e internazionali per essere governati. Istituzioni di cui dovremmo essere protagonisti e non certo nemici. Lo si è visto recentemente a proposito dell’emergenza climatica (per fare forse l’esempio più clamoroso), problema che per sua natura i sovranisti non possono che negare, come fanno per ogni fenomeno o questione di dimensione globale. Fino a spingersi, nei fatti, a negare la realtà. E lo si è visto anche, clamorosamente, durante la fase più drammatica della pandemia, quando all’improvviso di antieuropeisti in giro non se ne trovavano praticamente più, quasi fossero entrati in clandestinità. Erano diventati d’un tratto silenziosi, in contrasto col rumore che sono soliti fare quando propagandano le loro tesi, un po’ furbi e un po’ ipocriti giacché perfettamente consci del fatto che se in una fase drammatica come quella si fossero messi a strillare di autarchia sanitaria e soprattutto economica, la platea li avrebbe cancellati dal panorama politico. Poi però si sa come vanno queste cose: le emergenze passano, le persone dimenticano, gli argomenti inaccettabili ridiventano ammissibili. È un processo che vediamo accadere continuamente, basti pensare a quale tipo di destra è oggi al governo del Paese.


Peraltro, il nazionalismo dimostra di sposare l’impianto del liberismo, accettandolo come una sorta di ideologia inconsapevole, e non promuove alcuna vera riflessione circa la struttura del capitalismo e le sue contraddizioni. Al pensiero critico, come quello che invece troviamo nello scritto di Spinelli e Rossi, si preferisce puntualmente un pensiero magico, complottistico e nostalgico di un passato che non può tornare e che, come è raccontato, non è nemmeno mai esistito, in una continua regressione del modello sociale che comporta di fatto una conservazione sì, ma all’indietro e quindi al ribasso.

La scena europea conferma ciò che viviamo in Italia, dalla Svezia alla Finlandia alla Francia, dove Le Pen perde ancora ma in misura sempre minore, fino alla Spagna socialista e di sinistra che teme l’avanzata della destra, anche estrema, e dove il Partito popolare ha dimostrato di accettare un’alleanza con Vox già nella comunità autonoma della Castilla y León e forse a livello nazionale, con le imminenti elezioni politiche. L’Est si presenta con le fattezze di un vero e proprio cartello politico che, ottenuta l’inclusione nella UE, ha subito condizionato il suo percorso, in un senso regressivo.



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