Vi voglio raccontare di una giornata che è stata così assurda da sembrare irreale. Mi sono sentita come se un normale giorno di una realtà parallela avesse fatto un salto nella nostra per farci vedere cosa ci stiamo perdendo. Prima di raccontarla, parto da una domanda. Se dico realtà distopica nella crisi climatica, cosa vi immaginate?
Avete presente tutti i film distopici? Quelli dove è tutto cementificato e grigio, l’aria è tossica e le persone girano con le maschere. C’è la povertà causata dall’accaparramento delle risorse, ci sono le malattie, le inondazioni, la siccità estrema (il che non è poi così diverso dal presente). Il fatto che ci immaginiamo scenari di devastazione e non un futuro vero rappresenta già di per sé un problema. È un problema di crisi dell’immaginario legato perlopiù a un’intera generazione che non riesce nemmeno ad immaginarsi un futuro all’interno del sistema attuale fatto di sfruttamento di risorse, lavoro e ambiente. Ma se non ci fosse il devasto climatico? Se a un certo punto tutte le istituzioni decidessero all’unisono di prendere sul serio la questione climatica, di smettere di finanziare il fossile e il cemento e puntare sulle rinnovabili e le città verdi? In questo caso come ve lo immaginereste il futuro? Come vi immaginereste le vostre città? Provate a fare questo esercizio di immaginazione.
Questo ha fatto l’attivista e artista di Fridays for Future Roma. Ha avuto un’idea trovata nelle pagine del libro La grande cecità, il cambiamento climatico e l’impensabile di Amitav Gosh. Ha condiviso la sua idea con le altre attiviste del gruppo romano dei Fridays e venerdì 15 settembre hanno dato vita a una piccola realtà distopica in piazza Damiano Sauli a Garbatella. Il che mi riporta alle parole di Alexander Langer: “bisogna sì muoversi nel mondo, ma senza essere del mondo. Un buon gruppo promotore, affiatato anche da amicizia, può fare molto.”
Ed ecco che questo gruppo porta nel mezzo di una piazza cementificata un giardino. “Un'utopia che vorremmo seminare per trasmettere degli scenari positivi”, dicono. Realizzano delle rocce con le cassette di frutta ricoperte da terra cruda, un modo sostenibile di costruzione a basso costo e basso impatto. Le rocce recingono della semplice terra riempita di piante e paglia. Questo piccolo giardino sorto in un giorno non evoca immaginari di catastrofe o distruzione ma di costruzione. Evoca quella realtà distopica dove la crisi climatica è stata presa sul serio e i risultati si riflettono su tutta la comunità. Lo fanno con una soluzione semplice: togliere il cemento che ammazza la relazione tra biosfera e atmosfera portando il pianeta a ribellarsi a questa violenza che non gli permette di respirare. La terra soffoca e soffochiamo anche noi, perché l’idea che siamo divisi dell’ambiente è semplicemente irreale. Ogni ferita inflitta all’ambiente è una ferita inflitta a noi così come ogni atto di cura dell’ambiente è un atto di cura per noi.
Torno a casa permettendomi di immaginare qualcos’altro al di fuori della devastazione. Mentre sono in metro prendo il telefono e mi imbatto in una notizia su Lampedusa. E anche qui, se vi dico Lampedusa a cosa pensate?
Invece io mi imbatto in una delle cose più belle che abbia visto negli ultimi anni: un video delle abitanti di Lampedusa, volontari e volontarie e persone appena sbarcate dopo una terribile traversata che sono tutte insieme a ballare. Sotto lo stesso cielo. Immaginate se dopo il deserto, la Libia e il Mediterraneo, a Lampedusa non si trovasse “sta rottura di coglioni dei fascisti” e tutto ciò che essi comportano ma si trovassero delle persone che accolgono con musica e danze. Pensate se le persone appena sbarcate a Lampedusa dopo tutto quel dolore perdurato potessero almeno per una notte dimenticarlo nel calore dell’accoglienza.
Penso a come starebbero le cose se solo un giorno le decisioni politiche venissero prese da questo gruppo di persone dei Fridays for Future di Roma e dalle abitanti di Lampedusa. Come sarebbero le città, come sarebbe la collettività e la convivenza? E questo immaginario me lo voglio tenere strettissimo perché immaginandola questa società la possiamo anche desiderare.
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