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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Status quo ante bellum



Molto più dell’onnipresente resilienza, parola che si è sparsa come un fastidioso tormentone in questi ultimi anni, l’espressione latina status quo ante bellum restituisce quel senso di illusione che “le cose” possano tornare “come erano prima”, prima di un avvenimento che le ha cambiate. Metaforicamente, nel senso del mondo pre-covid, ma anche letteralmente, perché la guerra in effetti c’è stata, anzi c’è.


Chi oggi si trova a dover governare il Paese conta molto su detta illusione, fa da cardine di una proposta politica che punta sulla nostalgia, quando non direttamente per tempi precedenti alla Repubblica, almeno in grado di invertire il calendario di una legislatura o due. Solo che non si può fare, come peraltro insegna la termodinamica: l’entropia aumenta sempre, e i processi sono irreversibili. Così, in questo caldo inverno, c’è chi guarda al gas consumato in Italia dal canonico inizio della brutta stagione e si rallegra per il risparmio estremamente consistente registrato rispetto al 2021, una vittoria contro la dipendenza dal gas putiniano. Peccato che non si sia trattato di risparmio, ma di assenza di freddo, cosa per cui c’è poco da stare allegri. Un indizio lo si può trovare nelle bollette recapitate alla fine del 2022: consumi molto più bassi, in assoluto, rispetto allo stesso bimestre dell’anno precedente, ma spesa quasi uguale, giacché gli aumenti viaggiano intorno al 150 per cento. E, nel frattempo, son finiti anche gli sconti sul carburante.


Il prezzo del gas, dicono i giornali di questi giorni, ha smesso di crescere, almeno per ora, ma ecco l’illusione, lo status quo ante bellum che non si verifica: magari si sono fermati, ma non è che stiano tornando indietro, e c’è da dubitare che succeda in futuro. Vale per il gas, ma anche per frutta, verdura, carne, pasta, e così via: chiunque ha potuto verificare nell’ultimo anno una spesa almeno del 50 per cento più cara, a parità di carrello, ben oltre l’inflazione registrata. Che è diventata un po’ come le temperature estive, nel senso che quella percepita è molto più alta di quella indicata dal termometro della nostra economia. Gli stipendi invece, quelli no, non sono cresciuti: gli speculatori mettono alla prova il mercato per capire fino a che punto i consumatori sono in grado di spellarsi vivi pur di continuare a mangiare, e finché ci riescono gli va benissimo così.


Qualche giorno fa, intervenendo in un’occasione di dibattito a proposito del congresso del Pd, Marianna Madia ha detto che i democratici devono rivolgersi al ceto medio, intendendo forse, da quel che si capiva, un pezzo di società differente rispetto a chi sta peggio. La tenerezza! Chissà cosa ha in mente Madia quando parla di ceto medio, forse quelle coppie ritratte nelle commedie all’italiana che fanno lavori normalissimi e vivono in 140 metri quadri in centro a Roma. Che però non esistono, forse bisognerebbe mettere un avviso a inizio proiezione. Fino a qualche tempo fa, con ceto medio si intendeva un terzo Stato, una piccola borghesia più benestante del proletariato, una classe lavoratrice in grado di vivere in case decorose, di far studiare i figli, di concedersi qualche consumo velleitario, e soprattutto di mettere da parte un po’ di risparmi. I proletari facevano lavori più faticosi, meno pagati, vivevano nelle case popolari, ma trovavano il modo di risparmiare comunque, anche se con molta più fatica e privazioni. A un certo punto della storia, qualcuno deve aver deciso che era davvero un peccato, lasciare che la gente se li tenesse, quei soldi. E ha pensato che sarebbe stato molto divertente, mettere i due gruppi in conflitto tra loro per contendersi le briciole. E vedere il Pd discuterne, pure: uno spasso.


Le cose sono cambiate parecchio, rispetto all’agiografia consunta cui ci si continua a riferire, e da prima che Marianna Madia nascesse, più o meno: oggi è considerato ceto medio chi ha la fortuna di avere un impiego, spesso precario, vive sul costante filo di lana del rosso in banca, se fa figli li pianifica come se stesse per offrire un contratto a Messi, e ha in affitto a caro prezzo un monolocale che dista un’ora di mezzi pubblici, se gli va bene, dal posto di lavoro. Se l’azienda per cui lavora lo lascia a casa per via di qualche ristrutturazione, giacché non ha più le tutele di un tempo, e se le spese fisse gli aumentano del doppio, siccome di risparmi non ne ha nemmeno l’ombra, nel giro di un mese finisce a gambe all’aria. E questi sono quelli fortunati, perché pur nell’incertezza costante, quando le cose vanno decentemente, possono almeno sperare che duri. Figuriamoci gli altri.


E quindi, se proprio si ha a cuore questo ipotetico ceto medio, se proprio ci si vuol riempire la bocca di resilienza, sarà meglio venire a patti col fatto che indietro non si torna, il dentifricio non si può rimettere nel tubetto, bisogna andare per forza avanti: dare tutele a chi non ne ha, fare quella rivoluzione ecologica che - pur in un mondo interconnesso - non ci costringa a far debiti per riscaldarci quando da qualche parte del mondo accade uno sconvolgimento, e magari permetterci di mettere via due spicci per i giorni di pioggia, visto che gli sconvolgimenti succedono a dispetto di qualsiasi ottimismo. Altrimenti, dopo la crisi, non c’è un bel niente che torni come era prima, restano solo le macerie.




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