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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

T’appartengo

Aggiornamento: 10 dic 2022



Arrendetevi. Anzi, arrendiamoci. Resistere è inutile. Nel corso dei decenni, molti fenomeni culturali che erano stati giudicati impietosamente sono stati poi rivalutati col tempo, è bastato aspettare che chi li aveva vissuti durante la propria giovinezza diventasse vecchio abbastanza da sostituire l’élite culturale precedente. Vale anche per i contemporanei, forse anche di più, capiterà, sta già capitando. Non possiamo farci niente, anzi, potrebbe persino piacerci. Oppure no, bambini di oggi un giorno cresciuti dedicheranno saggi ai Me contro Te e lo troveranno assolutamente normale. È successo con fenomeni rilevanti, Elvis Presley e Beatles compresi: discutibili secondo il metro dei genitori di allora, pilastri fondamentali della cultura contemporanea quando i figli sono cresciuti e hanno potuto avere voce in capitolo. Dato generazionale a parte, anche la politicizzazione dei giudizi è destinata a non invecchiare bene: in un’edizione del Torino Film Festival di anni fa, Dario Argento spiegava a Enrico Ghezzi e a John Carpenter che negli anni Settanta, alle prime dei suoi film, veniva accolto dagli sputi delle femministe, perché nelle sue opere le donne erano sempre le vittime. E, quando uscì Full Metal Jacket, nel 1987, Godard criticò aspramente Kubrick perché mancava il punto di vista dei vietnamiti. Oggi francamente è difficile leggere il film diversamente da un capolavoro di critica assoluta alla guerra, e si prende per buono l’intento dell’autore di raccontare solo la follia di parte americana senza più di tanto interrogarsi su quella avversaria. Anche rispetto a quei primi thriller di Argento, tutto questo intento misogino non è più così sentito, specie considerando i decenni di film simili e di revenge movie - in cui le donne da vittime si trasformano in carnefici, ma facendo sorgere altri problemi di significato - che sono usciti da allora.


Erano tempi più ingenui? Mica tanto, se prendiamo come esempio tutto il dibattito contemporaneo sulla cancel culture: proiettato a venti o trent’anni da oggi, assume ben altra prospettiva. E riguarda anche le cose che quando escono vengono giudicate brutte semplicemente perché sono, in effetti, brutte, nel senso esatto che indica la scarsa qualità. Ma non per questo perse per sempre, poiché si tratta di quel genere di opere su cui alcuni, tra cui proprio l’ex socio di Ghezzi, Marco Giusti, si esercitano riabilitando commediacce e altri episodi - che mai avremmo detto salvabili - del cinema italiano, Vanzina compresi. Per dire, l’altra sera si è conclusa l’ultima edizione di X-Factor in cui, più dei vincitori, più degli inediti, più di tutto il resto la cosa che ha veramente bucato lo schermo e affollato i social sia durante la diretta che il giorno seguente è stata Ambra che, dopo molti anni, è tornata a eseguire T’appartengo dal vivo. Quindi ci siamo, abbiamo rivalutato pure questo. Non da oggi, anzi, la brace covava viva da un bel po’ sotto le ceneri, attendeva solo l’occasione giusta per riaccendersi. Emancipandosi completamente, peraltro, dal suo contesto originario.


Non è la Rai era un programma che ha segnato la tivù, evidentemente nel tempo, visto che ne parliamo ancora nel 2022, e molte ragazzine - non tutte, era una specie di discrimine sociale, nella scelta delle frequentazioni - lo guardavano per identificarsi, i ragazzi lo guardavano perché c’erano le ragazze carine, scatenate, ammiccanti e felicemente sciocche, ed era per questo un prodotto televisivo riuscito, su questo c’è poco da dire. Bello però no, ecco, per quanto significativo e segnante per un ampio pubblico del tempo. Forse alcuni non lo sanno e altri l’hanno scordato, ma nella prima metà degli anni Novanta non c’era niente, niente di più cretino e di più rappresentativo della cultura berlusconiana di Non è la Rai. A torto? A ragione? Chissà. Intanto, Ambra si è presentata indossando non a caso un microfono ad archetto, dando un metaforico schiaffone a chi all’epoca lo aveva indicato come simbolo di una generazione stupida e teleguidata. Ben ci sta.


E se della disputa fra Truffaut e Kubrick ci si poteva pure appassionare, nel caso di Non è la Rai nemmeno c’era, la disputa. Il pezzo fatidico, che era anche la title track dell’album, molto venduto, uscì alla fine del 1994, durante il primo governo Berlusconi, che cadde e venne sostituito da Lamberto Dini a inizio 1995, pochi mesi dopo. Nel tripudio social di queste ore si ritrova non solo gente che all’epoca votava il Pds di Occhetto, ma anche chi ancora frequentava il liceo, probabilmente molti tra quelli che detestavano la trasmissione e tutto ciò che rappresentava e, giacché nel frattempo sono passati 27 anni, anche i loro figli, che ai tempi non solo non erano ancora nati ma nemmeno in programma. Il che fa sorgere una domanda: cosa ci incazziamo a fare, perché ci indispettiamo, cosa protestiamo se poi nel giro di due o tre decenni siamo ineluttabilmente destinati a farci piacere tutto? Non potremmo risparmiare tempo, energie e fegato, e arrenderci subito risparmiandoci tutto ‘sto travaglio?

Nel 1995 io avevo 22 anni, e con un paio di colleghi decidemmo di andare a vedere una data del tour di Ambra, più che altro perché volevamo farci due risate. Con l’incoscienza dei vent’anni, è il caso di dirlo, qualche giorno prima avevo pubblicato una stroncatura dell’album per un giornale locale, e quando arrivai al concerto fui circondato da un gruppetto di nanerottoli - o così mi sembravano, anche se in realtà erano solo ragazzini - che vennero a protestare, vagamente minacciosi, per le cose che avevo scritto (adolescenti che compravano giornali cartacei, basti questo a testimoniare un’epoca che sembra non sia mai esistita). Con la maturità che viene solo con l’età, e che quand’ero un giovane aspirante giornalista presuntuoso e appassionato di musica indipendente non potevo avere, oggi posso infine dirlo: avevano ragione loro, non lo faccio più (prometto, prometto).




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