Sono rimasto molto spiacevolmente sorpreso, nel leggere il pezzo di ieri in cui Giuseppe Civati raccontava delle lamentele da parte di un'assessora di Bolzano, che ritiene ci siano "troppi" italiani e stranieri nelle scuole di lingua tedesca del suo territorio. Sorpreso non solo per l'evidente meschinità del risollevare ancora una volta le etichette etniche come muri per dividere la comunità, ma soprattutto per l'assoluta incapacità di cogliere la grande fortuna che l'Alta Adige avrebbe, se davvero le cose stessero come dicono a Bolzano.
Anche io vengo da una zona di confine, mentre scrivo queste righe sono a meno di un quarto d'ora dal valico con la Slovenia. Un confine ormai solo amministrativo, anche se in molti (questi sì, davvero "troppi") vorrebbero vederlo tornare quella linea di netta separazione e demarcazione che è stato il confine orientale per buona parte del '900. Non solo ci sono tornato a vivere qualche anno fa, ma qua ho vissuto gran parte della mia vita. Ciò nonostante, con mia suprema vergogna, parlo non più di tre parole di sloveno. Padroneggio l'inglese abbastanza bene da fare il traduttore, so quel tanto di tedesco che mi farebbe probabilmente passare i test di ingresso che invoca l'assessora altoatesina per bimbi della sua provincia, ma non ho mai imparato la lingua dei miei vicini di casa. Per la verità, nessuno ha mai provato a insegnarmela. Perché nell'aerea di Trieste le famiglie italiane che iscrivono i propri figli alle scuole di lingua slovena sono una sparuta minoranza di "stravaganti". Alla stragrande maggioranza degli abitanti di questo territorio non passa neanche per l'anticamera del cervello di imparare la lingua dei propri dirimpettai, nonché di una parte non inconsistente dei propri concittadini. Figuriamoci se la farebbero imparare ai propri figli.
D'altro canto, nel mio percorso scolastico nelle scuole italiane nessuno mi ha mai proposto di imparare lo sloveno, nemmeno come attività elettiva. Anzi, la separazione era sancita per regolamento. La mia scuola media era per metà di lingua italiana e per metà slovena. Non solo tra le due parti della scuola c'era una separazione fisica - dei portoni che gli studenti non potevano varcare; non solo c'erano due ingressi, italiani di qua, sloveni di là; ma persino orari diversi: le campanelle erano sfasate di cinque o dieci minuti tra le due parti della scuola, di modo che gli orari di ingresso, di ricreazione e di uscita fossero diversi quel tanto che bastava a non fai mai incrociare le ragazze e i ragazzi dei due diversi gruppi etnici. Guai a farli incontrare. Avrebbero potuto parlare, conoscersi, magari persino diventare amici.
Ecco, dalla prospettiva di una città che ama raccontarsi come multietnica e accogliente, ma che per lo meno fino ai civilissimi anni '90 - anche se temo le cose non siano molto cambiate - ha non solo permesso ma sancito questa separazione etnica grottesca e un po' ripugnante, non posso che guardare con sgomento a quanto si scrive in luoghi a me peraltro molto cari come il Sud Tirolo. La possibilità di creare una nuova comunità di persone finalmente libere da etichette etniche, arricchite da una formazione multiculturale, è un'opportunità incredibile per la provincia di Bolzano di essere ancora una volta un territorio d'avanguardia e un laboratorio per il resto del paese. Non rinchiudetevi di nuovo in divisioni che puzzano di un passato di sangue e piombo. Lasciate che le nuove generazioni scrivano una pagina nuova, bilingue o persino multilingue. Non potrà che essere più bella di quelle che abbiamo scritto noi fino ad ora.
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